ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

11/15/2024 | Press release | Distributed by Public on 11/15/2024 10:45

Sudafrica: la presidenza G20 è sfida storica

Arrivando a meno di un mese di distanza dalle elezioni presidenziali statunitensi, l'inizio della prima presidenza africana del G20 rischia di passare in secondo piano all'interno di uno scenario internazionale affollato di novità e di incertezze. In realtà, il passaggio di consegne tra il Brasile e il Sudafrica, fissato per il prossimo 1° dicembre, giunge al momento giusto per richiamare l'attenzione sul ruolo nuovo e più centrale che l'Africa subsahariana sta assumendo in questa fase di riorganizzazione dell'ordine internazionale. L'anno che si apre promette di essere decisivo per la ristrutturazione degli equilibri globali e Pretoria si troverà in una posizione di grande visibilità in un momento in cui il rapporto tra il continente africano e il resto del mondo dovrà essere, almeno in parte, ridefinito.

L'eredità degli anni Novanta

Il fatto che proprio al Sudafrica tocchi il compito di rappresentare il continente africano alla guida del club delle potenze economiche del pianeta è la prova di come gli assetti istituzionali che hanno preso forma alla fine della Guerra fredda si stiano dimostrando resilienti e durevoli.

Nel 1999, quando la prima crisi finanziaria dell'era post-Guerra fredda suggerisce l'idea di allargare il perimetro del G8 e di coinvolgere anche le economie emergenti del resto del globo, il Sudafrica appare il candidato perfetto - e anche l'unico proponibile - per includere l'Africa. Oltre ad avere l'economia più grande (e l'unica diversificata) del continente, il Paese sta salutando la fine del mandato presidenziale di Nelson Mandela. Questi aveva proiettato il nuovo Sudafrica come alfiere dell'internazionalismo liberale e motore dell'integrazione del continente africano nell'economia globalizzata, ponendo Pretoria alla guida dei processi che portano alla nascita dell'Unione africana, della Nuova associazione per lo sviluppo dell'Africa (NEPAD) e del Tribunale penale internazionale.

Con il passaggio dalla presidenza da Thabo Mbeki a quella di Jacob Zuma (2007-2009), il rapporto di fiducia con l'Occidente sembra incrinarsi. Mentre britannici ed europei lamentano il mancato sostegno sudafricano alle pressioni contro lo Zimbabwe di Mugabe, gli Stati Uniti iniziano a guardare alla Nigeria come a un interlocutore alternativo nel continente: il ricalcolo del PIL nigeriano, che nel 2014 permette al gigante demografico dell'Africa occidentale di superare il Sudafrica, è anche il riflesso di un rapporto divenuto più problematico. Il rinnovo dell'accesso all'African Growth and Opportunity Act (AGOA) nel 2015 è uno strumento con cui Washington ricorda all'African National Congress (ANC), al potere a Pretoria, il rapporto predominante e ineludibile che lega l'economia sudafricana ai mercati occidentali.

Paradossalmente, però, il ritorno dell'ANC ai toni terzomondisti e antioccidentali non riesce ad allontanare Pretoria da americani ed europei. Negli anni di Bush una parte dell'opinione pubblica occidentale plaude alla scelta dell'ANC di tenere aperti i rapporti con i vecchi alleati antimperialisti della lotta contro l'apartheid, dalla Palestina a Cuba, mentre l'ingresso del Sudafrica prima nell'IBSA e poi nei BRICS avviene in una fase in cui questi nuovi gruppi sono percepiti come fora in cui si esprime la volontà riformista (più che revisionista) del Sud del mondo. Il Sudafrica non cessa quindi di essere visto come una sorta di ponte tra gli emergenti e le democrazie occidentali. Nonostante i richiami retorici all'alternativa offerta dal modello dello "Stato sviluppista" cinese, a cui la leadership dell'ANC ricorre ogni qual volta i media e le diplomazie occidentali sollevano critiche verso il governo sudafricano, il ritorno ad alleanze organiche con i vecchi alleati "orientali" (tra cui si riaffaccia la Russia di Putin) resta molto lontano. Perfino la scelta di astenersi sulle risoluzioni di condanna dell'invasione dell'Ucraina da parte di Mosca adottate dall'Assemblea generale dell'ONU nei primi mesi del 2022 appare il frutto della preoccupazione di mantenere l'allineamento con il blocco africano desideroso di riaffermare l'autonomia del continente.

Uno scenario che cambia

Negli ultimi anni sviluppi importanti all'interno e all'esterno del Paese hanno iniziato a disegnare uno scenario in parte diverso da quello in cui Pretoria si era ritagliata il suo ruolo all'indomani della fine dell'apartheid. Alla crescita della tensione tra Occidente e Oriente, che ha cominciato a intersecare quella tra Nord e Sud del mondo, ha corrisposto il logoramento degli equilibri politici interni che avevano retto il Paese dall'inizio degli anni Novanta.

L'anno che si sta chiudendo ha portato novità su entrambi i fronti. Sul piano internazionale, l'allargamento dei BRICS - pur ufficialmente sostenuto da Pretoria - ha tolto al Sudafrica il monopolio della rappresentanza dell'Africa, ora condivisa con due Paesi più popolosi e geograficamente meno periferici come Egitto ed Etiopia - in attesa di un possibile futuro ingresso della Nigeria.

All'interno, le elezioni del maggio scorso hanno chiuso un trentennio caratterizzato dal monopolio del governo da parte dell'ANC, che ha finora espresso tutti i presidenti dal 1994 a oggi. Sceso per la prima volta sotto la soglia del 50% dei seggi, l'ANC ha dovuto aprirsi alla collaborazione con le opposizioni, formando un inedito esecutivo di coalizione con la Democratic Alliance (DA), partito di raccolta delle minoranze bianca, meticcia e indiana, di ispirazione liberale. Le conseguenze di questa svolta stanno emergendo un po' per volta. Da un lato, l'immagine di una società rappresentata da un'élite africana urbana e moderna sta lasciando il posto a quella, più vicina alla realtà, di una società marcata dalla diversità sociale, etnica, linguistica e razziale e caratterizzata da legami speciali con l'Europa. Dall'altro lato, la politica estera adottata dall'ANC nell'ultimo decennio, concepita per far passare in secondo piano le connessioni commerciali e finanziarie con USA e UE, deve ora fare i conti con la propensione più filo-occidentale e internazionalista della DA, che, pur non osteggiando la decisione di portare Israele al Tribunale penale internazionale per i fatti di Gaza, tende a guardare con estremo sospetto i giri di valzer con Mosca e con Pechino.

Ponti, non blocchi

Rotture o forti discontinuità, in realtà, non sono probabili. I temi scelti per la presidenza del G20, ovvero "Solidarietà, uguaglianza e sviluppo sostenibile" e "Sviluppo per l'Africa", fanno trasparire la volontà di riaffermare una sostanziale continuità con la tradizione. Tuttavia, nel suo anno al vertice del club dei Venti, Pretoria dovrà articolare la sua vocazione di ponte in termini almeno in parte nuovi, che tengano conto dei cambiamenti in corso e delle tensioni che stanno emergendo, su diversi piani.

Su quello interno, dovrà evitare che il patto su cui si basa il governo nazionale, privo di alternative realistiche e fondamentale per la stabilità dell'economia e della stessa democrazia sudafricana, subisca troppi scossoni. La scelta del presidente Cyril Ramaphosa di riaffermare il suo "non allineamento" nel conflitto tra Mosca e Kyiv, ribadita ancora dopo uno screzio con la DA in occasione della visita a Pretoria del ministro degli Esteri ucraino Andrii Sybiha, mostra che, paradossalmente, la posizione assunta fin qui potrebbe trarre benefici dall'apertura di una fase di negoziati con la Russia promessa da Trump.

Sul piano africano, allo stesso tempo, Pretoria non può permettersi di perdere un'occasione unica per riaffermarsi come portavoce dei Paesi dell'Africa subsahariana. Si è infatti in una fase in cui la nuova attenzione per il continente come fornitore di energia e di materie prime strategiche sta creando le condizioni per una ridiscussione dei termini di scambio con le economie più sviluppate e con l'Occidente, in un senso più favorevole ai Paesi africani. Per farlo, dovrà evitare di trovarsi isolato nel suo continente, anche a costo di suonare ancora, quando necessario, i tamburi dell'antimperialismo e della non ingerenza nella sovranità degli Stati.

Infine, sul piano globale, visto il suo status di membro sia del G20 sia dei BRICS, il Sudafrica probabilmente si troverà a giocare un ruolo di "messaggero" e di intermediario tra quelli che una visione un po' troppo debitrice della storia novecentesca vede già, prematuramente, come due blocchi ben definiti e contrapposti. In ciò cercherà di battere la concorrenza di altri Paesi-ponte che possono ambire a svolgere una funzione simile, dall'India al Brasile.

È probabile, dunque, che l'ambivalenza che ha contraddistinto la politica estera di Pretoria dall'inizio degli anni 2000 rimanga una cifra - se non addirittura la cifra - della presidenza del Sudafrica. Che porti frutto dipenderà dalla capacità della leadership sudafricana di riformularla alla luce dei cambiamenti in corso. Ma dipenderà anche dalla disponibilità delle diplomazie occidentali a muoversi su strade nuove e a pensare al rapporto con l'Africa in termini innovativi, almeno in parte, rispetto al passato recente.