ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

05/23/2024 | Press release | Distributed by Public on 05/23/2024 09:42

Cina-Taiwan: esercitazioni punitive

Tornano a surriscaldarsi le acque intorno a Taiwan, dove questa mattina all'alba Pechino ha avviato nuove esercitazioni militari a tre giorni dall'insediamento sull'isola del nuovo presidente Lai Ching-te (William Lai). Le esercitazioni nominate 'Joint Sword-2024' sono cominciate all'alba di oggi e proseguiranno per due giorni nello stretto di Taiwan e tutt'intorno all'isola contesa. Il portavoce militare cinese Li Xi ha affermato che le navi della marina e la sua aviazione "si concentreranno sul pattugliamento congiunto di prontezza al combattimento, sulla presa congiunta del controllo globale del campo di battaglia e su attacchi congiunti di precisione su obiettivi chiave". In altre parole, Pechino vuole ribadire la sua assoluta superiorità militare su Taiwan, che rivendica come parte integrante del proprio territorio. Secondo gli organi di informazione ufficiali, le manovre sono state lanciate "con l'intento di punire le forze secessioniste" e per inviare un avvertimento "alle forze esterne belligeranti, in seguito al discorso separatista del leader regionale di Taiwan, Lai Ching-te". Taipei, da parte sua, ha condannato le esercitazioni, definendole "provocazioni irrazionali" che minacciano la democrazia e la libertà di Taiwan, nonché la pace e la stabilità regionale.

Parole pericolose?

Ma perché Pechino ha deciso di dover "punire" Taiwan proprio ora? Non è un caso che nelle dichiarazioni cinesi si faccia riferimento al discorso del 20 maggio pronunciato dal nuovo presidente William Lai, che in occasione del suo insediamento aveva auspicato "la pace con la Cina" esortandola a "fermare le minacce militari e le intimidazioni" nei confronti dell'isola. "Spero che la Cina affronti la realtà dell'esistenza (di Taiwan), rispetti le scelte del nostro popolo e, in buona fede, scelga il dialogo invece del confronto" ha detto Lai, impegnandosi a "non cedere né provocare" Pechino ma sottolineando che la democrazia dell'isola è determinata a difendersi "di fronte alle numerose minacce e tentativi di infiltrazione dalla Cina". Pechino, che considera Lai un "pericoloso separatista" e ha colto nelle sue parole una discontinuità con la cautela della presedente presidente Tsai Ing-Wen, ha reagito affermando che "c'è una sola e unica Cina" e che la "confessione della volontà di indipendenza di Taiwan" avrebbe provocato delle "conseguenze". William Lai - eletto a gennaio presidente della Repubblica di Cina, il nome ufficiale con cui Taiwan si definisce di fatto indipendente - è un esponente del Partito Democratico Progressista, una formazione che non cerca l'indipendenza dalla Cina ma sostiene che Taiwan è già una nazione sovrana.

Uno status quo insostenibile?

Taiwan, che ha circa 23 milioni di abitanti, è autonoma dal 1949, ma la Cina la considera una provincia ribelle e punta a riportarla sotto il suo controllo, senza escludere se necessario l'uso della forza. L'importanza dell'isola per Pechino ha ragioni storiche, geopolitiche ed economiche: riconoscerne l'indipendenza significherebbe derogare al principio della propria integrità territoriale, oltre ad ammettere l'esistenza di un altro modello politico economico alla Cina comunista. Inoltre, quella con l'isola è una disputa che coinvolge anche la rivalità di Pechino con gli Stati Uniti. Oltre ad essere il principale produttore al mondo di microchip, l'isola si trova nella cosiddetta "prima catena di isole" - che comprende stati alleati degli Usa che affacciano sull'Oceano. Il suo controllo aprirebbe un varco in questa catena, consegnando a Pechino un accesso diretto sul Pacifico. Nel tentativo di mantenere un difficile equilibrio tra i propri interessi e le relazioni con la Cina, la politica di Washington dal 1979 si fonda sulla cosiddetta ambiguità strategica: gli Usa non riconoscono l'indipendenza di Taiwan ma rimangono il principale sponsor e fornitore di armi dell'isola. Non a caso sono spesso coinvolti nelle crisi militari tra i due paesi: l'ultima, nell'agosto 2022, fu provocata dalla visita a Taipei dell'allora speaker della Camera americana Nancy Pelosi.

L'ambiguità a volte aiuta?

Alcuni esperti di politica cinese affermano che nel suo discorso, Lai si sia effettivamente discostato dal solco tracciato dalla sua predecessora, nonostante in campagna elettorale si fosse impegnato a preservare "lo status quo". Ad esempio, mentre Tsai si riferiva alle "autorità di Pechino" o "all'altro lato dello Stretto" - con espressioni che non presumevano l'esistenza di due paesi diversi - Lai ha parlato di "Repubblica Cinese" e "Repubblica Popolare Cinese", affermando che "non sono subordinate l'una all'altra". In tal mondo - osserva il Financial Times - "si corre il rischio di ribaltare quell'ambiguità che ha consentito alla rivendicazione territoriale di Pechino di coesistere con l'indipendenza de facto di Taiwan senza innescare conflitti". Bisognerà attendere per capire se effettivamente William Lai intenda alzare la posta in gioco aumentando la spesa militare e rafforzando le sue alleanze, in particolare con gli Stati Uniti. Ma se così fosse - anche se i politici del DDP sostengono di non avere molta altra scelta - questo complicherà le relazioni con la Cina continentale. Intanto, la durata di due giorni annunciata da Pechino rende le manovre in corso più brevi delle due precedenti. A differenza di quelle del 2023, inoltre, non includono esercitazioni a fuoco vivo. Tuttavia, come lascia intendere la lettera finale nel nome dell'operazione 'Spada congiunta 2024-A' potrebbero essere solo le prime di una lunga serie.

Il commento

Di Guido Alberto Casanova, ISPI Asia Centre

Dopo qualche mese di atteggiamento tutto sommato attendista, la Cina torna ad alzare la pressione militare nei confronti di Taiwan. Dopo un discorso d'inaugurazione considerato provocatorio da Pechino, le forze armate cinesi hanno annunciato esercitazioni militari che di fatto simulano l'imposizione di un blocco navale sull'isola. L'obiettivo non sembra essere quello di un'invasione, che peraltro sarebbe molto difficile nel contesto attuale, ma piuttosto di mandare un segnale politico duro a Taipei dimostrando che se volessero, le forze armate cinesi sarebbero pronte ad agire. L'ipotesi di un embargo, la più realizzabile tra le opzioni senza ritorno che Pechino ha sul tavolo, rappresenterebbe nondimeno un'escalation con conseguenze globali, vista la profondissima integrazione di Taiwan nelle catene internazionali di approvvigionamento: tanto che, se l'isola venisse bloccata dal mare, si calcola che l'economia mondiale potrebbe contrarsi anche del 5%.

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