ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

07/19/2024 | Press release | Distributed by Public on 07/19/2024 07:19

Uranio: geopolitica di un revival obbligato

La corsa verso la transizione energetica passa, inevitabilmente per molti Paesi, attraverso nuovi investimenti nel settore dell'energia nucleare. A dare impulso a quest'industria, di cui si è già parlato in precedenza, non vi è però solamente la questione Net-Zero.

Energia nucleare e controllo delle supply chains, incluse quelle dell'uranio, sono da contestualizzare all'interno di uno scenario di frammentazione politica e commerciale globale senza precedenti nella storia recente. Non solo ciò ha riflessi sulle materie prime critiche, incrementando i costi della transizione, ma rende la stessa un fenomeno che alimenta un clima internazionale di insicurezza diffusa.

Come è possibile quindi sintetizzare oggi il ruolo dell'uranio nella corsa alla sicurezza e transizione energetica globale e quali sfide affronta l'Europa, dove il settore nucleare vive oggi un rinnovato interesse?

La commodity preferita dai mercati?

Pur considerato a parte rispetto ad altri metalli come litio, cobalto e rame, il percorso verso Net-Zero al 2050 non può prescindere da un revival dell'industria nucleare. L'International Energy Agency (IEA) prevede un raddoppio dell'apporto del nucleare nella produzione elettrica dal 2022 al 2050. In particolare, è dal 2030 in poi che la maggior parte degli investimenti dovrebbero realizzarsi. Impossibile, dunque, non tener conto delle tensioni esistenti nella filiera estrattiva e della lavorazione dell'uranio: processi che legano a doppio filo il percorso della transizione con il futuro dell'industria a livello globale.

Figura 1

L'IEA riconosce che le tensioni geopolitiche rappresentano un ostacolo al raggiungimento della neutralità carbonica al 2050. Le ostilità tra Occidente e Federazione Russa divengono un moltiplicatore di incertezze su tutti i mercati energetici, compreso quello delle materie prime come l'uranio.

Come sovente accade, a definire la strategicità delle materie prime sono i mercati ancor prima dei piani strategici governativi o quelli delle agenzie internazionali. In evidente controtendenza rispetto ad altre materie prime come litio, grafite e nichel, il cui utilizzo è larghissimo nei sistemi di stoccaggio di varia natura e utilizzo, l'uranio ha registrato il balzo in alto più corposo di tutti i metalli abilitatori della transizione nel corso del 2023 (Figura 2).

Figura 2

Diplomazia dell'uranio: corsa a ostacoli

La persistenza di una fiducia, a tratti nevrotica, nel mercato dell'uranio è anch'essa, dunque, una conseguenza del clima a livello internazionale. L'Europa, dove i riflettori si sono riaccesi dopo almeno due decenni, è co-responsabile di questa macro-tendenza. Le tensioni sui mercati non si sono smorzate, nonostante i continui investimenti nel settore, le nuove esplorazioni e le quantità stoccate di uranio siano oggi a un buon livello.

Nel 2024 è bastato l'annuncio del maggiore produttore mondiale, Kazatomprom, di alcuni problemi riscontratisi per il rifornimento di acido solforico (H2SO4), per mandare il mercato in cortocircuito. Il reagente, componente chiave dei processi industriali della supply chain dell'uranio, è stato infatti vittima dell'instabilità politica e dei riflessi energetici, in particolare quelli sulla geopolitica del gas naturale.

Il mercato dei fertilizzanti, dove l'acido solforico è largamente impiegato, ne ha provocato un'impennata di oltre il 30% dei prezzi. Una variabile ricaduta, inevitabilmente, sulle operazioni di Kazatomprom. La compagnia di Stato ha dovuto ridimensionare la propria strategia produttiva, annunciando nuovi investimenti proprio nella produzione di acido per accrescere la propria autonomia strategica nei prossimi anni.

Paradossalmente, anche il nostro Paese gioca un ruolo nella vicenda di Kazatomprom. La Dichiarazione congiunta, siglata durante la visita del Presidente kazako Tokayev a Roma nello scorso gennaio, ha portato alla costituzione di un Business Council italo-kazako che vedrà energia e risorse naturali ancora al centro della cooperazione bilaterale.

Tra gli accordi siglati per la cooperazione industriale tra il fondo sovrano statale kazako e l'italiana Ballestra, leader nella produzione di detergenti, saponi, prodotti chimici e fertilizzanti, è stata annunciata la costruzione di un nuovo impianto, dalla capacità di 800.000 tonnellate annue, nel distretto di Suzak, nella regione del Turkistan. Eppure, ritardi di 12 mesi rispetto la tabella di marcia sono già stati preventivati nella realizzazione dello stabilimento.

Una vicenda, quella di Kazatomprom, che vale come ennesima dimostrazione della fitta rete di interdipendenze nei mercati delle risorse energetiche e delle materie prime. Ma anche come il nostro Paese, pur avendo abbandonato il nucleare decenni fa, possa contribuire a ristabilire un equilibrio sul mercato dell'uranio.

Inoltre, significativo è il fatto che la cooperazione industriale non si limiti in questo caso a definire le strategie di ingaggio e della diplomazia energetica. La stessa è anche dirimente per la costituzione di quel nuovo ordine energetico globale che l'Europa ambisce a modellare nella fase successiva al conflitto ucraino. L'Italia, grazie a una cooperazione industriale, può incidere anche sulle catene di valore dell'uranio.

A valle delle implicazioni che hanno coinvolto Kazatomprom e che ben riassumono il coacervo di tensioni che aleggia sui mercati, tra la fine del 2023 e l'inizio del 2024 il prezzo dell'uranio ha raggiunto il picco da 16 anni a questa parte. Le quotazioni internazionali dell'ossido di uranio sono così triplicate rispetto quelle mantenute nel decennio precedente.

La geopolitica riscrive gli equilibri

Le proiezioni dell'industria mineraria e quelle delle agenzie convergono su di una sostanziale insufficienza degli investimenti in nuovo output minerario. Un peggioramento che dovrebbe sentirsi più marcatamente dal 2030 in poi (Figura 3). Il deficit attuale di uranio dovrà essere dunque colmato dalla riattivazione di miniere oggi ferme e dalla messa in operatività di nuovi progetti, dall'anno in corso e successivamente con sempre maggiori investimenti nell'industria estrattiva.

Figura 3

Nel Nord America spiccano le miniere di Comeco in Canada e Energy Fuels negli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato di Washington ha da poco annunciato 2,7 miliardi di investimenti dedicati esplicitamente al rafforzamento delle capacità di arricchimento dell'uranio. Non si può infatti prescindere da questo segmento se l'intenzione rimane quella di incrementare il nucleare nel mix energetico, un'opzione che sta riprendendo vigore anche negli Stati Uniti.

Non soltanto Washington intende investire nell'arricchimento dell'uranio per ragioni interne. La scelta va compresa nella chiara contrapposizione al predominio russo in questo specifico segmento della filiera. In maggio il Presidente Biden ha siglato un provvedimento bipartisan che introduce un embargo alle importazioni di uranio arricchito russo, e relative scappatoie, a partire dal mese di agosto.

In Asia, invece, il fermento per gli investimenti in uranio ha da tempo preso piede. A dare adito a questa nuova ondata di progetti vi è l'influenza diplomatica di Pechino e Mosca, capace di estendersi sia ai comparti industriali che sulle strategie di decarbonizzazione. Si sono infatti moltiplicati i Paesi che in Asia centrale, così come nel Sud-Est asiatico, si mostrano interessati a una cooperazione.

In Uzbekistan, Paese con una delle agende più ambiziose nell'introduzione del nucleare nel proprio mix energetico, il governo ha approntato una strategia che prevede, in pochi anni, la realizzazione di nuovi reattori. Di pari passo, gli investitori internazionali sono attratti dalla prospettiva di estrarre uranio dal sottosuolo. In questa fase, aziende di Stato della Repubblica popolare cinese (China Nuclear Uranium) e Francia (Orano) si contendono la realizzazione di nuovi impianti estrattivi. In ballo però non vi è soltanto l'accesso alla materia prima.

La stessa brama di Tashkent nel dotarsi di impianti nucleari attrae ancor più Pechino e Parigi. La possibilità rappresentata dall'esportazione delle tecnologie necessarie alla realizzazione delle future centrali uzbeke garantirebbe un trait d'union di lungo periodo e un'influenza di non poco conto sul Paese più popoloso della regione.

In questa competizione oggi Mosca sembra però avere la meglio, anche grazie a una più ampia partnership energetica che lega Russia e Uzbekistan. D'altronde, l'Uzbekistan deve di molto accelerare il suo piano di investimenti se vorrà centrare il proprio obiettivo di divenire, entro il 2030, un nuovo produttore di energia nucleare.

Uranio e nucleare nelle fratture politiche africane

Non per ultimo, la geopolitica dell'uranio vive giorni concitati anche in Africa. Riserve sono state localizzate in pressoché tutto il continente, dal Golfo di Guinea al Magreb, passando per il Bacino minerario del Congo e i depositi della Tanzania. Spesso le stesse si trovano associate ad altre materie prime rilevanti come rame e argento, ma anche oro, influenzando la fattibilità degli investimenti minerari.

Nello Stato del Mali, dove un governo militare detiene il potere dal 2021 in poi, diversi sono i progetti che prevedono l'estrazione di uranio, con compagnie canadesi intente a scandagliare le risorse esistenti. Il Paese ha anche recentemente reiterato la propria volontà di abbandonare ogni tentativo di riconciliazione con il blocco economico filo-occidentale ECOWAS, prediligendo l'asse con Niger e Burkina Faso, denominato Alliance of Sahel States (AES).

Mosca, che da tempo ha dispiegato truppe del Gruppo Wagner e oggi degli Africa Corps, ha messo gli occhi sulla partnership energetica con il Paese. Un accordo siglato di recente tra Rosatom e il governo maliano si propone di realizzare una piccola centrale, preludendo a una collaborazione di tipo tecnologico, ma anche industriale ed economico/finanziaria. Nulla vieta di pensare che, in futuro, questa non possa ampliarsi all'estrazione dell'uranio.

Il Sahel è probabilmente uno dei punti di contatto più significativi tra le agende politiche e strategiche dell'Occidente e dei suoi avversari. In Niger, dove la giunta militare ha approfondito il riorientamento a Est della propria politica estera e securitaria, il governo ha recentemente revocato la licenza della francese Orano a operare nel giacimento di Imouraren, considerato tra i più ricchi al mondo.

La linea rossa che la Casa Bianca ha tracciato per una collaborazione tra Niamey e Mosca, o ancor peggio con Teheran nel settore nucleare, lascia presagire nuovi cambiamenti che potrebbero ridisegnare le frontiere della nuova mappa di interessi geopolitici dell'industria dell'uranio.