ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

10/08/2024 | Press release | Distributed by Public on 10/09/2024 01:41

Iran: il prezzo della risposta israeliana

Il candidato riformista Masoud Pezeshkian ha vinto le ultime elezioni presidenziali nel ballottaggio del 5 luglio scorso convincendo gli elettori attraverso il suo programma politico e soprattutto economico.

Sebbene l'affluenza alle urne sia stata relativamente contenuta al primo turno (39,93%), dimostrando la disaffezione degli iraniani dalla politica, la prospettiva della possibilità di vittoria di un governo a guida ultraradicale guidato da Saeed Jalili ha spinto un numero maggiore di elettori a recarsi al voto al secondo turno (49,98%), permettendo a Pezeshkian di vincere le elezioni con il 54,76% delle preferenze.

La vittoria del candidato riformista ha determinato una profonda spaccatura in seno al fronte dei conservatori, dove una parte della componente principalista ha deciso di sostenere Pezeshkian ritenendolo il "male minore" rispetto al fronte più radicale, anche in questo caso ritenendo il programma politico ed economico del candidato riformista decisamente migliore di quello dell'avversario.

Il peso delle sanzioni

È apparso in tal modo evidente come la proposta di rilancio del dialogo sul nucleare con la comunità occidentale, finalizzata alla riduzione del gravoso peso delle sanzioni, fosse risultata più convincente per la maggioranza degli elettori, costituendo l'economia il principale elemento di interesse della società iraniana.

Le sanzioni, che colpiscono l'Iran in conseguenza del controverso sviluppo del suo programma nucleare e che il governo di ispirazione pragmatica del presidente Rohani non era riuscito alla fine a revocare con l'accordo sul nucleare del 2015 (il JCPOA), hanno determinato conseguenze pesanti sull'economia iraniana, e quindi anche sull'occupazione, sull'inflazione e più in generale sul costo della vita dei cittadini.

Il presidente Pezeshkian ha quindi cercato di rilanciare le aperture al dialogo sul nucleare sin dal giorno della proclamazione della sua vittoria elettorale, dovendo tuttavia subire una concatenazione di eventi che ne ha frustrato la pratica applicazione.

La fine della "pazienza strategica"?

Il 31 luglio, lo stesso giorno della sua investitura informale, veniva ucciso a Tehran - probabilmente per iniziativa di Israele, che tuttavia non ha mai rivendicato l'azione - il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Poco dopo iniziarono ad accentuarsi le tensioni tra Hezbollah e Israele in Libano, con un mutamento del baricentro strategico di interesse di Tel Aviv verso il nord e il successivo lancio di rocambolesche azioni che hanno decapitato il vertice del partito-milizia sciita libanese, fino all'uccisione del suo leader Hassan Nasrallah e del suo potenziale successore Hashem Safieddine.

L'Iran, posto dinanzi a un limitato margine di scelta, ha dovuto ponderare se continuare ad esercitare quella che la Guida suprema Ali Khamenei definiva come la "pazienza strategica", e quindi astenersi dal rispondere militarmente, o, al contrario, se lanciare un attacco contro Israele per cercare di riequilibrare la deterrenza strategica e dimostrare agli alleati del cosiddetto "asse della resistenza" la propria credibilità militare.

Ha optato il 1° ottobre per la seconda opzione, lanciando un poderoso attacco missilistico che ha colpito numerosi obiettivi militari israeliani, aprendo tuttavia a quella che appare come l'inesorabile risposta di Tel Aviv contro la Repubblica islamica, con conseguenze politiche ed economiche ad oggi imponderabili.

Escalation: quale possibile impatto economico?

Nel valutare quale potrebbe essere la portata dell'impatto economico di un'escalation con Israele, tuttavia, possono essere formulate alcune considerazioni generali sui principali fattori di interesse per il Paese, valutandone l'evoluzione.

L'ambito che certamente desta le maggiori preoccupazioni per Tehran è quello relativo al comparto industriale del settore petrolifero e del gas naturale, che rappresenta la maggiore vulnerabilità per l'economia della Repubblica islamica.

Sebbene numerosi fossero stati gli allarmi sul mercato petrolifero nel merito dell'incremento delle tensioni tra Iran e Israele, i rialzi del prezzo dei greggi di riferimento è stato contenuto nel corso delle ultime settimane, anche dopo l'attacco iraniano del 1° ottobre e le notizie di un imminente risposta israeliana. Il Brent ha chiuso la settimana scorsa con un incremento del 4%, posizionandosi su 78,14 US$ al barile, mentre il WTI ha chiuso a 74,45 US$.

I mercati, in sintesi, sembrano non aver attribuito ai fattori di crisi connessi allo scontro tra Israele e Iran una particolare rilevanza, ritenendo che la capacità produttiva di OPEC+ sia altamente sottodimensionata allo stato attuale, permettendo incrementi ampiamente sufficienti a compensare eventuali ammanchi determinati dal calo o dall'interruzione della produzione iraniana.

Sebbene in caso di crisi il mantenimento della produzione agli attuali valori potrebbe determinare un incremento del prezzo largamente vantaggioso per i produttori, la gran parte dei Paesi del cartello petrolifero, in questo momento, manifesta un maggiore interesse verso un aumento della capacità di produzione, al fine di incrementare i rispettivi ricavi. Secondo gli analisti, quindi, l'eventuale crisi del sistema produttivo iraniano potrebbe consentire incrementi rapidi di produzione capaci di soddisfare le richieste del mercato e al tempo stesso mantenere sostanzialmente invariati i prezzi.

Uno scenario caratterizzato da una politica competitiva dovrebbe essere sostenuto politicamente dagli aderenti al cartello, e in particolar modo dall'Arabia Saudita, che, tuttavia, non sembra nutrire alcun interesse in questa fase per l'adozione di una strategia ostile.

La vera incognita, tuttavia, riguarderebbe il sistema produttivo ed economico iraniano, dove la produzione petrolifera è attualmente attestata su circa 4,3 milioni di barili al giorno, dei quali circa 2,2 destinati all'esportazione, prevalentemente a favore della Cina e di altri attori asiatici. La capacità inespressa di OPEC+ è invece stimata per oltre 5 milioni di barili al giorno, ponendosi in tal modo all'interno di un'ampia forbice di sicurezza per gli equilibri del mercato.

Per quanto concerne il potenziale calo della produzione iraniana, invece, molto dipenderà se e dove Israele intenderà colpire il sistema della produzione petrolifera locale. I volumi più significativi del sistema produttivo iraniano transitano attraverso il complesso dell'isola di Kharg, rendendolo un hub strategico ma anche un obiettivo estremamente sensibile per gli equilibri industriali nazionali. Se fosse colpito e fortemente danneggiato il terminale di Kharg la produzione iraniana subirebbe potenzialmente un significativo crollo della produzione, determinando conseguenze gravissime tanto sotto il profilo del consumo interno quanto delle esportazioni, con il conseguente impatto sul bilancio nazionale.

Le ripercussioni sarebbero immediate e disastrose per l'economia iraniana, già pesantemente colpita dalle limitazioni imposte dalle sanzioni internazionali e da un sistema industriale scarsamente diversificato rispetto al settore degli idrocarburi.

La rete terrestre di esportazione del greggio e del gas naturale, peraltro scarsamente sviluppata, in parte da tempo bloccata e orientata prevalentemente in direzione di un ristretto numero di Paesi confinanti, non offrirebbe margini di compensazione per sostenere l'impatto di un significativo attacco ai terminali del Golfo Persico. Non è da escludersi, peraltro, che un'eventuale azione israeliana possa prendere di mira anche tali infrastrutture, ampliando la sfera del danno economico esponenzialmente.

Le conseguenze sul piano interno sarebbero enormi e immediate, aggravate peraltro dalla scarsa capacità dell'Iran di poter beneficiare di interventi finanziari emergenziali da parte degli ormai pochi partner internazionali del Paese.

Per delineare quali potrebbero essere le conseguenze economiche concrete sull'economia iraniana, e conseguentemente sulla sua stabilità politica, deve in tal modo valutarsi in primo luogo la portata di una eventuale azione militare israeliana.

Qualora Israele optasse per un'azione massiccia e ampiamente distruttiva delle infrastrutture del sistema energetico iraniano, le conseguenze sul piano pratico potrebbero riproporre per la Repubblica islamica l'adozione delle misure emergenziali già adottate tra il 1980 e il 1988 in occasione della guerra con l'Iraq.

La capacità finanziaria dell'Iran, anche attingendo alle risorse del fondo strategico di accantonamento - peraltro già interessato da riduzioni conseguenti alle esigenze finanziarie correnti - non presentano tuttavia orizzonti estesi sul piano temporale nel caso di una crisi di grave portata, determinando in tal modo l'esigenza di adottare provvedimenti rapidi per il ripristino delle capacità produttive, dove ancora una volta il peso delle sanzioni potrebbe determinare gravi difficoltà nell'accesso alle tecnologie necessarie per gli impianti.

Allo stesso tempo, l'Iran dovrebbe gestire i contraccolpi della crisi sul piano dell'inflazione e del rallentamento della produzione nei settori non oil&gas, con ogni probabilità interessati da un contestuale calo della capacità dei necessari approvvigionamenti energetici, avviando un meccanismo di crisi a catena che non tarderebbe a determinare conseguenze sul piano della tenuta sociale.

Un attacco di più modeste dimensioni, come gli Stati Uniti sembrano auspicare nei loro messaggi all'amministrazione politica israeliana, potrebbe al contrario contenere fortemente gli effetti della crisi, pur diluendola su un orizzonte temporale più ampio, senza tuttavia attenuarne il peso progressivo sull'economia iraniana, ormai strutturalmente incapace di sostenere il fardello dell'isolamento internazionale, delle sanzioni e della mancata espressione del potenziale nazionale.

Queste considerazioni, in conclusione, dimostrano come le scelte della leadership iraniana di mutare il proprio approccio strategico verso Israele, ancorché logiche e razionali da un punto di vista politico e di conservazione dello status quo, rischiano al contrario di alterare velocemente e in profondità i fondamentali dell'economia nazionale, aprendo a scenari imponderabili, imprevedibili e certamente insostenibili per la Repubblica islamica.