ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

01/22/2024 | Press release | Distributed by Public on 01/22/2024 04:26

Escalation Israele-Hamas: commenti dagli esperti

Netanyahu, sempre più isolato? | 19 gennaio 2024

Mattia Serra, ISPI MENA Centre

Delle ultime dichiarazioni di Benjamin Netanyahu non sorprende né il contenuto né la sfrontatezza. L'opposizione a uno stato palestinese è sempre stato uno dei cardini della visione politica di Bibi, il cui futuro politico è oggi più che mai legato al proseguimento della guerra. Le parole di ieri arrivano in un momento di forte tensione nei rapporti con l'amministrazione Biden, sempre più preoccupata dai costi politici di un'operazione militare che dopo così tanta distruzione continua ad avere scarsi risultati. La domanda che sorge spontanea è quale sia il piano di Biden di fronte a un primo ministro così intransigente e, soprattutto, se la Casa Bianca sia ancora in grado di tracciare linee rosse e di farle rispettare.

Un nuovo accordo mediato dal Qatar | 18 gennaio 2024

Valeria Talbot, Head, ISPI MENA Centre

Mentre il conflitto tra Israele e Hamas non accenna a placarsi e il rischio di un'escalation di violenza su più ampia scala rimane elevato, la diplomazia del Qatar, questa volta in collaborazione con la Francia, è riuscita a raggiungere un nuovo accordo tra le parti in guerra. Non si tratta di un'altra tregua né tantomeno di un cessate il fuoco - su cui preme Hamas ma non Israele e gli Stati Uniti - bensì di un rifornimento di medicinali a decine di ostaggi israeliani ancora nelle mani del gruppo militante palestinese. In cambio migliaia di scatole di medicinali e altri aiuti umanitari saranno forniti ai palestinesi della Striscia. Qualcosa si muove sul piano diplomatico, sebbene l'accordo rimanga pur sempre una goccia nel dramma degli ostaggi e nella catastrofe umanitaria di Gaza, dove alle vittime delle bombe si aggiungono le morti per fame. Dietro le crescenti pressioni interne, quella degli ostaggi sembra questione a oggi essere l'unica che possa fare breccia nell'inflessibilità delle posizioni del governo Netanyahu.

Raid in Siria e Iraq, l'Iran cerca il conflitto? | 16 gennaio 2024

Luigi Toninelli, ISPI MENA Centre

Quando il giorno di Natale Razi Mousavi, principale esponente dei pasdaran in Siria, è stato ucciso in un raid israeliano, le autorità di Teheran promisero vendetta "nel giusto luogo e nel giusto momento". Oggi, con l'attacco a una presunta base del Mossad a Erbil, nel Kurdistan iracheno, quel momento sembra essere arrivato. Se per oltre tre mesi la leadership della Repubblica islamica aveva più volte smentito il proprio coinvolgimento negli attacchi effettuati da suoi alleati e aveva cercato di evitare di farsi coinvolgere in un potenziale conflitto regionale, qualcosa oggi a Teheran sembra essere cambiato. La morte di alcuni comandanti dei pasdaran,causata da raid israeliani, unita all'attacco terroristico avvenuto a Kerman a inizio gennaio, e rivendicato dallo Stato islamico (IS), avevano già causato un incremento delle pressioni sulla leadership iraniana per una sua reazione. Non è un caso che nelle stesse ore in cui metteva a segno l'attacco a Erbil, la Repubblica islamica colpiva anche posizioni di IS sul territorio siriano. Se con il lancio di missili in Siria l'Iran colpisce IS e cerca di placare la rabbia interna senza arrivare a scatenare una guerra con il Pakistan o l'Afghanistan, da cui sarebbero provenuti gli attentatori di Kerman, gli attacchi nel Kurdistan iracheno servono a tracciare nuove linee rosse nell'escalation e a riacquisire un minimo di deterrenza dopo mesi di erosione della sua credibilità.

Perchè Washington non dovrebbe sottovalutare gli Houthi | 15 gennaio 2024

Eleonora Ardemagni, ISPI Senior Associate Research Fellow

Gli Houthi hanno sempre sfruttato il contesto per costruire in modo efficace la loro propaganda. Lo hanno fatto quando l'ex presidente Ali Abdullah Saleh collaborò con gli USA contro Al-Qaeda nei primi anni duemila, o anche mostrandosi come 'protettori della patria' dopo l'intervento saudita del 2015. Inoltre, a differenza di altri attori regionali vicini all'Iran come Hezbollah in Libano, gli Houthi non hanno vincoli derivanti dall'istituzionalizzazione o dalla condivisione del potere: di fatto vivono in un contesto di guerra perenne, a cui sono pienamente abituati. Gli Stati Uniti e i loro partner dovrebbero tener conto di questi fattori e non sottovalutare il potenziale della crisi nel Mar Rosso. Leggi l'approfondimento

La missione di Blinken in Medio Oriente e la crisi umanitaria a Gaza | 9 gennaio 2024

Valeria Talbot, ISPI MENA Centre

A tre mesi dallo scoppio di un conflitto di cui non si intravede ancora la fine, la comunità internazionale assiste inerme, e inerte, all'immane catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza. La conta delle vittime tra i civili palestinesi è drammatica e il numero sembra essere destinato salire, come denunciano le organizzazioni umanitarie che con enorme fatica e scarsi mezzi continuano a operare nella martoriata Striscia. La mancanza di sicurezza rende difficile la distribuzione di aiuti che non sono sufficienti a soddisfare gli enormi bisogni di una popolazione ormai allo stremo. Su questo sfondo, è legittimo chiedersi quali risultati riuscirà a portare a casa il segretario di Stato americano Antony Blinken che, al suo ennesimo viaggio in Israele, ha messo nella lista delle priorità la protezione delle vite dei civili e l'incremento degli aiuti a Gaza.

La guerra a Gaza entra in una nuova fase | 8 gennaio 2024

Mattia Serra, ISPI MENA Centre

La guerra è entrata in una nuova fase, o almeno questo è quello che il governo israeliano sta affermando da giorni ormai. Cinque brigate ritirate da Gaza, di cui due smobilitate. Migliaia di riservisti che ritorneranno a casa, andando ad alleviare quella che ormai è una delle principali preoccupazioni del governo israeliano: il costo della guerra per l'economia nazionale. Che la mobilitazione dei 300.000 riservisti decisa a ottobre non fosse sostenibile nel medio termine si sapeva. Se questa nuova fase comincia con un graduale disimpegno, però, è anche vero che sul piano militare le operazioni continuano come prima. Il grosso dell'esercito israeliano rimane concentrato nel centro e nel sud della Striscia, là dove si trova la leadership militare di Hamas e dove i combattimenti continuano senza tregua. Non accenna a placarsi neanche la crisi umanitaria, soprattutto nel nord di Gaza, dove gli aiuti hanno sempre fatto troppa fatica ad arrivare.

L'uccisione di Mousavi e la dimensione regionale del conflitto | 27 dicembre 2023

Luigi Toninelli, ISPI MENA Centre

Il raid israeliano che nel giorno di Natale ha provocato la morte del generale Sayyed Razi Mousavi, principale uomo dei Pasdaran in Siria e importante pedina iraniana sullo scacchiere mediorientale, rappresenta un duro colpo per la proiezione della Repubblica islamica in Medio Oriente. Proprio per questo Teheran ha già promesso di vendicare la morte del proprio combattente "nel momento e luogo più appropriato". Tuttavia, le parole del portavoce del ministro degli Esteri iraniano lasciano trasparire ancora una volta come, nonostante la retorica incendiaria, l'Iran non sembri intenzionato a farsi coinvolgere direttamente dal conflitto e lascerà ad altri attori dell'Asse della resistenza il compito di vendicare la morte di Mousavi. Ciononostante, il raid di lunedì mostra ancora una volta come il conflitto in corso tra Hamas e Israele sia già regionalizzato e coinvolga attori lungo tutto il Medio Oriente. A destare particolare preoccupazione è quanto sta avvenendo in Libano: da giorni infatti gli attacchi israeliani e di Hezbollah si sono ulteriormente intensificati e lo sguardo dei principali negoziatori internazionali è rivolto verso nord nel tentativo di evitare che Israele invada il sud del Libano per respingere Hezbollah oltre il fiume Litani. Le negoziazioni formali e informali proseguono ormai da giorni e sembra che Israele abbia dato a Hezbollah dalle 6 alle 8 settimane per ritirarsi - prima a 30km e ora a 10km - dal confine israeliano. Mentre i falchi israeliani spingono per l'invasione accrescono sempre più a livello internazionale i timori per un'operazione militare dalle potenziali catastrofiche conseguenze militari e umanitarie.

La guerra colpisce l'economia di Israele e l'intera regione | 22 dicembre 2023

Valeria Talbot, ISPI MENA Centre

Secondo un recente rapporto dell'agenzia di rating Moody's, la guerra contro Hamas sta costando a Israele almeno 269 milioni di dollari al giorno ed è destinata a pesare sull'economia del paese più dei conflitti precedenti, si stima circa il 10% del Pil. Ma il conflitto a Gaza sta avendo inevitabili ricadute economiche anche sul piano regionale. Se in questa fase è difficile prevedere quale sarà l'impatto sulla crescita dell'intera area Mena, i primi effetti dell'instabilità geopolitica si sono riflessi sul settore turistico dei paesi limitrofi. Nelle settimane successive all'attacco di Hamas del 7 ottobre, in un contesto di riduzione a livello globale, i voli per il Medio Oriente sono quelli che hanno subito una contrazione maggiore, pari al 26% rispetto al 2019 (l'anno pre-pandemia). E non sorprende che a essere maggiormente colpiti dalle cancellazioni nel comparto turistico sono gli stati - Egitto, Giordania e Libano - più vicini all'area del conflitto. Se si considera che per questi tre il turismo conta rispettivamente per il 10%, il 15% e il 40% del Pil, sono evidenti i rischi che pesano su contesti economico-finanziari già vulnerabili. Ripercussioni pesanti soprattutto per il Libano, che già da diversi anni versa in una grave crisi economico-finanziaria, dove la riduzione delle entrate turistiche invertirà il lieve trend di crescita previsto per il 2023, riportando l'economia in recessione. Scenario sconfortante quello delineato dalla Banca mondiale per un paese in cui l'instabilità economica si unisce a una prolungata impasse politica.

Le navi container iniziano ad abbandonare il Mar Rosso. Un nuovo shock per il commercio globale? | 21 dicembre 2023

Roberto Italia, Osservatorio Geoeconomia ISPI

"Nelle ultime settimane, i continui attacchi degli Houthi alle navi mercantili in transito nello stretto di Bab el-Mandeb e nel Mar Rosso hanno iniziato a generare onde d'urto su tutta l'economia globale. Le più importanti compagnie di spedizione marittima come AP Møller-Mærsk, Hapag-Lloyd, MSC e Yang Ming stanno abbandonando questa vitale rotta commerciale e deviato le loro flotte verso il Capo di Buona Speranza per motivi di sicurezza. Nel settore energetico, BP è il primo gigante petrolifero a sospendere tutte le spedizioni, mentre Trafigura, società leader nel commercio delle materie prime, ha adottato ulteriori precauzioni per le sue navi di proprietà e a noleggio nella regione. Se seguissero decisioni simili, costi aggiuntivi e ritardi rischierebbero di rendere più complicata la lotta contro l'inflazione globale. Anche il traffico attraverso il Canale di Suez verrà interessato: da qui fluiscono circa il 5% del greggio mondiale, il 10% dei prodotti petroliferi e l'8% dei flussi marittimi di GNL. La resilienza delle catene di approvvigionamento globali è ancora una volta messa alla prova, data anche la parallela crisi di siccità nella zona del Canale di Panama."

L'impatto economico della crisi del Mar Rosso, limitato (oggi), ma domani? | 20 dicembre 2023

Aldo Liga, ISPI MENA Centre

La crisi del Mar Rosso, l'intensificarsi degli attacchi degli Houthi (già coinvolte almeno 13 navi in transito), e la decisione di alcune fra le principali compagnie di navigazione di sospendere il transito nell'area, riprogrammando le rotte per raggiungere il Mediterraneo, rischia di avere un impatto significativo a livello economico, commerciale, e sui mercati internazionali dell'energia. Si tratterebbe della prima vera ripercussione economica globale della guerra in corso a Gaza dal 7 ottobre. La proliferazione di attacchi nell'area dello stretto di Bab El-Mandeb e la volatilità geopolitica ha già contribuito ad un incremento importante dei costi delle spedizioni marittime e delle coperture assicurative. Per quanto riguarda i prezzi del petrolio invece, all'indomani della decisione di BP di sospendere il transito delle sue petroliere, l'aumento si è limitato a un +3%, con il Brent che ha raggiunto gli 80 dollari al barile: la domanda mondiale di petrolio, infatti, è al momento ampiamente soddisfatta; gli attacchi, inoltre, non coinvolgono le infrastrutture di produzione. Questo oggi. Ma domani? L'abbandono stabile del transito navale nel Mar Rosso rischia di avere ripercussioni a catena sui mercati energetici, il commercio, sulla movimentazione delle merci, la logistica e, più in generale, sulla portualità dell'intero bacino del Mediterraneo. Oltre che in costi maggiori e tempi più lunghi, vi sono anche effetti collaterali sui paesi rivieraschi. L'Egitto, fra questi, rischia di pagare a caro prezzo il calo del traffico attraverso il canale di Suez. Il paese prevedeva, fra l'altro, di incrementare i benefici economici del suo sfruttamento tramite un aumento delle tariffe di transito, già previsto a partire dal prossimo gennaio. Benefici che a questo punto rischiano di svanire.

Una coalizione anti-Houthi nel Mar Rosso | 19 dicembre 2023

Eleonora Ardemagni, ISPI Senior Associate Research Fellow

Gli Houthi sfruttano il conflitto Hamas-Israele per tenere sotto scacco soprattutto l'Arabia Saudita. Gli attacchi nel Mar Rosso mettono infatti Riyadh in una posizione scomoda, nel mezzo dei colloqui con gli Houthi per il cessate il fuoco in Yemen. I sauditi credevano che riavvicinandosi all'Iran (i pasdaran armano e addestrano gli houthi), sarebbero riusciti a trovare un compromesso. Ciò non sta accadendo: gli Houthi, che condividono con Teheran il sentimento anti-USA e anti-Israele, sono alleati dell'Iran, ma non sono attori manovrati dalla Repubblica Islamica. E proprio come l'Iran sono dei giocatori ambigui: attaccano asimmetricamente mentre continuano a negoziare. È improbabile che la task force navale a guida USA, di natura difensiva, li faccia desistere: la già esistente CTF 153 non ha infatti impedito l'escalation nel Mar Rosso. Gli Houthi scommettono sul fatto che né l'Arabia Saudita, intenta a proteggere il suo territorio e i progetti di Vision 2030 da possibili attacchi, né tanto meno gli USA nell'anno elettorale reagiranno davvero contro di loro

Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: nuovo voto, nuovo veto? | 18 dicembre 2023

Luigi Toninelli, ISPI MENA Centre

Nella giornata di oggi il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite torna a riunirsi per chiedere il libero accesso degli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza. Il voto di oggi, però, a differenza di quelli delle scorse settimane - quando gli Stati Uniti avevano più volte posto il veto alle risoluzioni per un cessate il fuoco -potrebbe avere un esito diverso. Già nella giornata di domenica Israele aveva aperto, per la prima volta dall'inizio del conflitto, il valico di Kerem Shalom consentendo il transito di aiuti umanitari verso Gaza attraverso il suo territorio. Una decisione che, dopo due mesi e mezzo dall'inizio del conflitto, sembra andare nella direzione di quanto il Consiglio di sicurezza si appresta oggi a votare. Tuttavia, le tensioni tra i paesi che siedono nel Consiglio permangono e gli Stati Uniti sono pronti a utilizzare il proprio veto. Ma questa volta potrebbero astenersi o votare a favore del testo presentato dagli Emirati Arabi Uniti, se da questo verrà eliminato ogni riferimento alla cessazione delle ostilità. Una riconferma, dopo il veto espresso la scorsa settimana, del chiaro sostegno materiale e politico che Washington intende continuare a fornire all'alleato israeliano, nonostante le frizioni tra Biden e Netanyahu sul futuro di Gaza.

Con le violenze in Cisgiordania cresce la pressione della comunità internazionale | 15 dicembre 2023

Luigi Toninelli, ISPI MENA Centre

Aumenta la pressione internazionale sul governo israeliano per fermare la violenza dei coloni in Cisgiordania. Secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 7 ottobre a oggi gli episodi di violenza che coinvolgono cittadini israeliani in West Bank sono più che raddoppiati. Se già nell'ultimo anno l'azione di alcuni gruppi di coloni estremisti avevano contribuito ad alzare radicalmente il livello di tensione, nelle ultime settimane la situazione è diventata sempre più esplosiva. La scorsa settimana gli Stati Uniti hanno annunciato restrizioni nel rilascio dei visti verso decine di estremisti coinvolti in episodi di violenza. Una posizione simile è stata presa dall'Alto Commissario Borrell, che lunedì ha dichiarato di voler proporre ai 27 un nuovo regime sanzionatorio, sottolineando la necessità di prendere una posizione netta contro quello che nelle dichiarazioni pubbliche dell'UE ha già cominciato a essere definito come "terrorismo dei coloni". Un altro segnale in questo senso è arrivato stamattina con una dichiarazione congiunta di quindici paesi, guidati dal Regno Unito. Oltre a denunciare la violenza, il comunicato si spinge fino a parlare di un "ambiente di quasi completa impunità" che ha di fatto assecondato l'azione di questi gruppi estremisti. Se da anni ormai il tema della violenza dei coloni è al centro delle dinamiche di sicurezza della West Bank, siamo davanti forse al primo caso di una chiara e ferma condanna da parte della comunità internazionale di un fenomeno che sta contribuendo non poco ad alzare il livello di tensione.

Attacchi Houthi nel Mar Rosso: sicurezza commerciale a rischio? | 14 dicembre 2023

Luigi Toninelli, ISPI MENA Centre

La sicurezza dei commerci globali è a rischio? Questo è un interrogativo che torna a porsi con insistenza sia alla luce dell'aumento dei premi assicurativi richiesti per le navi che transitano dal Mar Rosso sia in seguito a quanto reiterato stamattina dagli Stati Uniti, sempre più decisi a creare una "coalizione il più ampia possibile" per affrontare la crescente insicurezza dovuta agli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso. Dall'inizio del conflitto tra Israele e Hamas, infatti, gli attacchi del gruppo yemenita - alleato dell'Iran ma con ampia autonomia operativa - ai danni di navi commerciali che transitavano lungo uno dei punti più critici per il commercio marittimo sono tornati a mettere a rischio la sicurezza di Bab al-Mandeb, un collo di bottiglia attraverso cui transitano annualmente circa 23mila navi commerciali. Oggi infatti il gruppo prosegue coi suoi attacchi e sequestri a navi legate a Israele, sia per ottenere più potere nella trattativa con l'Arabia Saudita sia per accreditarsi nei confronti della popolazione yemenita, con un impatto già osservabile sui volumi commerciali: lo scorso mese ad esempio il porto di Aqaba in Giordania ha registrato un calo del 14% nel numero di navi in arrivo e sempre più navi oggi decidono di intraprendere anche due settimane in più di viaggio pur di evitare Bab al-Mandeb. Se la risposta alla domanda iniziale sembra dunque essere sì, tuttavia, anche il gruppo yemenita è consapevole che a una maggior insicurezza nel Mar Rosso corrisponde una accresciuta presenza militare statunitense. È pertanto difficile che queste tensioni possano portare, al momento, a un'escalation in grado di impattare in maniera significativa sul commercio internazionale e sui prezzi dell'energia.

Il "sì" dell'Assemblea ONU al cessate il fuoco | 13 dicembre 2023

Chiara Lovotti, ISPI MENA Centre

Con 153 voti a favore, 10 contrari, e 23 astensioni, l'Assemblea Generale dell'Onu si è espressa chiaramente a favore di un immediato cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, a cui dovrebbe seguire la "liberazione immediata e senza condizioni di tutti gli ostaggi e la garanzia dell'accesso per ragioni umanitarie". Uno scroscio di applausi ha accompagnato il voto del 12 dicembre nel Palazzo di vetro, eppure è difficile immaginare che questa nuova risoluzione possa portare qualsivoglia miglioramento significativo sul terreno. Due cose ce lo ricordano. Innanzitutto, le risoluzioni dell'Assemblea Generale non sono vincolanti (sono risoluzioni "non-binding", appunto, come chiariscono i titoli della stampa internazionale). Hanno valore politico, certo, e da questo punto di vista consola il fatto che la risoluzione del 12 dicembre abbia raccolto molti più voti in favore e molte meno astensioni della risoluzione del 27 ottobre per la tregua umanitaria (121 voti a favore, 14 contrari, 44 astensioni): è indice di una maggiore compattezza, all'interno della comunità internazionale, a sostegno della fine delle ostilità. In secondo luogo, fra i 10 "no" alla risoluzione, continua a esserci quello di Washington, il voto che pesa più di tutti: finché avrà il supporto formale degli Stati Uniti, è doveroso aspettarsi che Israele continuerà indisturbato. Maggiore consenso internazionale sulla fine della guerra, dunque, ma è una fine decisamente lontana. Al contrario, le operazioni militari israeliane nelle ultime non stanno facendo altro che intensificarsi: a sud della Striscia, a Jenin, nella Gaza sotterranea dei tunnel e dei vicoli di Hamas. E il prezzo più alto lo pagherà la popolazione civile.

L'ombra di Gaza sul terzo mandato di al-Sisi | 12 dicembre 2023

Aldo Liga, ISPI MENA Centre

Ultime file ai seggi oggi nel terzo e ultimo giorno di voto per le elezioni presidenziali egiziane, che dovrebbero vedere la scontata vittoria del presidente Abdel Fattah al-Sisi, in carica da quasi 10 anni. Secondo alcune stime, almeno 30 milioni di cittadini si sono già recati alle urne, un numero in crescita rispetto all'ultima tornata elettorale del 2018. Le elezioni si svolgono in una congiuntura interna ed esterna estremamente complicata, caratterizzata da una profonda crisi economica e dall'irrompere del conflitto nella confinante Gaza. È proprio Gaza a minacciare l'inizio del terzo mandato di al-Sisi. L'Egitto, nonostante i successi nei negoziati per una tregua umanitaria (triangolati con Qatar e Stati Uniti), rischia di pagare il prezzo del conflitto in corso per almeno tre ragioni diverse. Innanzitutto, l'eventuale afflusso di profughi palestinesi. Quanto potrà perdurare la netta opposizione ad un esodo di profughi verso la penisola del Sinai? Con l'85% della popolazione di Gaza sfollata, metà della popolazione alla fame, come si potrà gestire l'impatto - anche mediatico - di un rifiuto all'accoglienza? Oltre all'impatto umanitario persistono poi i rischi economici della situazione di crisi e insicurezza (il settore turistico, ad esempio, comincia a risentirne, con un tasso di cancellazione delle prenotazioni in crescita). Infine, permane il rischio sulla stabilità dei flussi energetici, nonostante le importazioni di gas israeliano siano recentemente ripartite. Tutti questi fattori rischiano di complicare ulteriormente il difficile percorso di riforme che l'Egitto dovrà intraprendere per superare la grave crisi che lo attraversa.

La posizione di Ankara | 11 dicembre 2023

Valeria Talbot, ISPI MENA Centre

A due mesi dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas la possibilità di una mediazione turca, inizialmente prospettata dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, appare del tutto tramontata. La cautela e l'equidistanza di Ankara sono state presto sostituite da una ferma posizione a sostegno di Hamas, definito "movimento di liberazione patriottica" dallo stesso presidente turco. Erdoğan ha dunque rispolverato i panni dello strenuo difensore della causa palestinese e riacceso i toni nei confronti di Israele e soprattutto del primo ministro Netanyahu, apostrofato come il "macellaio di Gaza". Se le relazioni tra Turchia e Israele - normalizzate poco più di un anno fa dopo un decennio di forti tensioni - sembrano finora tenere, l'attuale conflitto mette una pesante ipoteca sul loro futuro. Oggi più che mai appare evidente che, finché non troverà soluzione, la questione palestinese peserà sul piano politico a prescindere dalle leadership che guideranno i due paesi. Sul piano economico invece la linea è quella del "business as usual", secondo la logica della "compartimentalizzazione" che anche in passato ha caratterizzato le relazioni tra Turchia e Israele.

Putin nel Golfo, tra armi e petrolio

Chiara Lovotti, ISPI MENA Centre

"Da quando ha dato il via all'invasione della vicina Ucraina, e ancora di più da quando su di lui pende un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale, il presidente russo ha centellinato le visite all'estero, recandosi fondamentalmente solo in Cina e nei paesi dell'ex blocco sovietico. A farlo viaggiare fuori dalla propria zona di conforto, solo destinazioni di estrema rilevanza: l'Iran nel luglio 2022 e, oggi, Arabia Saudita ed Emirati. A Teheran per assicurarsi la collaborazione militare iraniana, fondamentale per il prosieguo della guerra; a Riad e Abu Dhabi ("colleghi" nell'OPEC+) per trovare un'intesa sui tagli alla produzione di petrolio (fortemente caldeggiati da Mosca che vorrebbe far schizzare i prezzi e mettere in ginocchio le economie occidentali). La guerra in Israele-Palestina è uno dei temi all'ordine del giorno, ma rimane sullo sfondo: Mosca sa di avere un potere limitato in questo dossier, nonostante l'offerta di Putin - più che altro "dovuta" e retorica - di mediazione. A fine settimana, poi, Vladimir Putin ospiterà l'omologo iraniano Ebrahim Raisi a Mosca. Visite simboliche che, oltre all'urgenza delle questioni specifiche che vengono trattate, restituiscono l'immagine di una saldatura dei paesi del cosiddetto "Sud Globale": un mondo che va avanti, oltre sanzioni e isolamento".

Un appello ai giovani palestinesi in Libano | 5 dicembre 2023

Luigi Toninelli, ISPI MENA Centre

"Il Movimento della Resistenza Islamica in Libano annuncia la costituzione delle Avanguardie del Diluvio al-Aqsa, giovani ed eroici figli del nostro popolo, unitevi alla resistenza!" Così ieri sera Hamas chiedeva ai giovani palestinesi in Libano di unirsi alla guerra e incrementare gli attacchi lungo il fronte nord. A molti, leggendo queste parole, è tornato subito alla mente il ruolo delle fazioni palestinesi nel turbinio di eventi che portò alla guerra civile libanese nel 1975. Tuttavia, già la scorsa estate, gli scontri nel campo profughi di Ain al-Hilwe, vicino a Sidone, avevano mostrato che ancora oggi i campi palestinesi rappresentano di fatto delle zone in cui nemmeno l'esercito libanese è disposto a entrare. Mentre il comunicato di Hamas veniva prontamente criticato dai partiti cristiani dell'opposizione, anche Gebran Bassil, il principale alleato maronita di Hezbollah in parlamento e nel governo, ha condannato la dichiarazione e chiesto il disarmo dei gruppi palestinesi. Queste critiche si vanno a unire a tutte quelle di coloro che, fin dai primi giorni del conflitto, hanno cercato di mettere in guardia contro le ricadute di un allargamento del conflitto in Libano. Anche se Nasrallah ha dichiarato che il Libano è già in guerra dall'8 ottobre, la presenza di ufficiali di alto rango di Hamas a Beirut e la chiamata alle armi di ieri sera rappresentano l'ennesima goccia di un vaso pronto a traboccare.

Il futuro di Gaza secondo gli USA | 4 dicembre 2023

Mattia Serra, ISPI MENA Centre

Nuova settimana, nuova delegazione statunitense in Israele. Questa volta guidato da Phil Gordon, consigliere per la sicurezza nazionale di Kamala Harris. Al centro dei colloqui che la delegazione avrà con gli israeliani e i palestinesi c'è ancora una volta il futuro di Gaza, una questione su cui la diplomazia americana si è spesa fin dai primi giorni della crisi. Due settimane fa, Joe Biden aveva parlato di una "Autorità palestinese rivitalizzata" a cui - nell'ottica di un riavvio del processo di pace - verrebbe restituito il controllo della Striscia. Secondo indiscrezioni di Al-Monitor, la Casa Bianca sarebbe convinta di poter raggiungere quel risultato con un piano di riforme per l'Autorità e, soprattutto, una nuova leadership. Tra i nomi citati ricorre spesso quello di Mohammad Dahlan, il leader di Fatah a Gaza prima dello scontro nel 2007 con Hamas. In questi sedici anni molto è cambiato sia nella vita di Dahlan - che nel frattempo è diventato consigliere dello sceicco emiratino Mohamed Bin Zayed - che nella vita politica della Striscia. L'idea che un leader così lontano possa ritornare a Gaza dopo tutta la devastazione degli ultimi due mesi è quantomeno ambiziosa. Per di più, da settimane ormai, Netanyahu sta ripetendo che non permetterà all'AP di riprendere il controllo di Gaza, una posizione che apre non pochi interrogativi sulle intenzioni del governo israeliano. Intanto i combattimenti nella Striscia sono ripresi e l'esercito israeliano è ormai alle porte di Khan Younis, in quella parte nel sud in cui due milioni di persone vivono ammassate da settimane. Di fronte a questo sviluppo, i progetti della Casa Bianca sembrano cozzare con l'evoluzione della situazione sul campo, ma anche con gli intenti sempre meno chiari di Netanyahu e del suo governo.

La ripresa delle ostilità a Gaza | 1 dicembre 2023

Luigi Toninelli, ISPI MENA Centre

A Gaza si torna a combattere, ma la fine della tregua non è certo un fulmine a ciel sereno. Si sapeva che era solo una questione di giorni e non sono mancati segnali in questo senso: dai discorsi incendiari di Netanyahu, all'attacco a Gerusalemme di ieri mattina rivendicato da Hamas e al minor numero di ostaggi civili nelle mani del gruppo islamista palestinese. Man mano che passavano i giorni è infatti diventato sempre più evidente come Hamas non intendesse liberare, al rapporto di tre palestinesi per un israeliano, gli ostaggi militari o coloro che avrebbero potuto servire come riservisti nelle forze armate. Il caso di Gilad Shalit, carrista delle Forze di difesa israeliane rapito nel 2006 e rilasciato solo nel 2011, aveva già mostrato quanto valesse per il gruppo palestinese la liberazione di un militare: in quel caso furono 1.027 i prigionieri palestinesi scambiati per un solo soldato israeliano. Mentre prosegue la difficile mediazione qatarina ed egiziana e a livello internazionale si ritorna a sponsorizzare la soluzione a due stati, seri interrogativi si pongono su quale sia il reale obiettivo israeliano. Alla lunga la completa distruzione di Hamas, leitmotiv attraverso cui i vertici dello Stato d'Israele continuano a giustificare la guerra, non sembra essere infatti una strada percorribile a causa dell'alto numero di vittime civili che ciò comporta e del non trascurabile sostegno che il gruppo dispone tra la popolazione palestinese.

Le preoccupazioni statunitensi | 30 novembre 2023

Mattia Serra, ISPI MENA Centre

Il Segretario di Stato americano Antony Blinken è arrivato stamattina in Israele, nel suo terzo viaggio nella regione dal 7 ottobre. La visita di Blinken arriva nel settimo giorno della tregua tra Israele e Hamas, un risultato diplomatico frutto degli sforzi di Qatar ed Egitto, ma anche e soprattutto degli Stati Uniti. In questi due mesi di guerra l'amministrazione Biden ha sempre difeso pubblicamente la posizione del governo israeliano, a fronte però di forti pressioni dietro le quinte. In questo momento, il timore per la Casa Bianca è che i risultati dell'ultima settimana possano essere vanificati dalla ripresa dei combattimenti. Oggi, la possibilità di un'espansione dell'operazione militare israeliana nel sud di Gaza - dove due milioni di persone vivono concentrate da un mese e mezzo - sembra essere sempre più concreta, con tutti i costi che questa avrebbe per la popolazione della Striscia. L'amministrazione Biden sembra opporsi a questa possibilità e pressioni in questo senso non sono mancate negli ultimi giorni. Fonti anonime della Casa Bianca citate da Axios riportano che Biden avrebbe espresso direttamente a Netanyahu le sue preoccupazioni per un allargamento dell'operazione. Ma altrettanto importante è stata la visita del capo della CIA William Burns in Qatar, dove ha incontrato - tra gli altri - il capo del Mossad David Barnea. Per giorni Burns ha provato a insistere su un'estensione della tregua, nella speranza che la liberazione di ulteriori ostaggi (e nello specifico anche di uomini e soldati) possa portare a ulteriori concessioni da parte israeliana. Il rischio è che se i negoziati dovessero fallire e i combattimenti riprendere, il ritmo dell'invio degli aiuti - che fino a oggi è stato abbastanza sostenuto - possa rallentare, o addirittura fermarsi. La situazione rimane precaria e volatile, e non solo a Gaza, come l'attacco a Gerusalemme di questa mattina ci dimostra.

Il ruolo dell'Egitto | 29 novembre 2023

Aldo Liga, ISPI MENA Centre

Insieme a Qatar e Stati Uniti, l'Egitto ha giocato un ruolo di primo piano nel negoziato con Hamas e Israele per lo scambio di prigionieri e per l'implementazione della tregua umanitaria (e la prospettiva di una sua ulteriore estensione). Non è la prima volta che il Cairo esercita un ruolo da arbitro nelle crisi fra israeliani e palestinesi: l'Egitto è stato il primo paese del mondo arabo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele all'indomani degli accordi di Camp David e intrattiene relazioni costanti con Hamas, nonostante il regime di Al-Sisi non sia vicino agli orientamenti del gruppo palestinese, legato ai Fratelli Musulmani, acerrimi nemici del governo egiziano. Dalla crisi in corso l'Egitto è emerso come uno degli attori "inaggirabili", come dimostrano le visite di molti leader internazionali e il fatto che il paese abbia ospitato il primo summit multilaterale organico per affrontare la situazione, il vertice di Pace del Cairo dello scorso 21 ottobre. La fine della tregua e la ripresa delle ostilità fanno ripiombare il Cairo nelle paure e nei timori scatenati all'indomani del 7 ottobre: la minaccia di un afflusso di profughi verso la penisola del Sinai (nonostante le autorità egiziane abbiano più volte ribadito il loro categorico rifiuto ad accogliere un potenziale esodo di rifugiati) e, più in generale, le ripercussioni geopolitiche di un prolungato conflitto ai suoi confini occidentali. Una sfida in più per un gigante dai piedi d'argilla, alla vigilia delle elezioni presidenziali del prossimo 10-12 dicembre.

La mediazione del Qatar | 28 novembre 2023

Valeria Talbot, ISPI MENA Centre

La tregua tra Israele e Hamas non solo ha retto ma è anche stata prolungata. Un successo per la diplomazia di Doha, in collaborazione con il Cairo e Washington, dopo settimane di lunghi e complessi negoziati. Il Qatar si conferma dunque mediatore di primo piano nelle crisi regionali grazie alla sua capacità di dialogare con tutti e di mantenere un delicato "balancing act" tra attori molto diversi. Si tratta di innegabili punti di forza su cui la piccola, ma ricca, monarchia degli al-Thani ha fatto leva negli anni per acquisire uno status e una proiezione esterna che vanno ben al di là delle sue dimensioni territoriali e del suo peso demografico. Un interlocutore affidabile per gli Stati Uniti, che nella penisola qatarina hanno installato la loro più grande base militare in Medio Oriente, ma anche per Hamas, la cui leadership politica ha qui trovato accoglienza da un decennio a questa parte. E ciò ha certamente fatto la differenza rispetto ad altri paesi che si sono proposti come mediatori in questo conflitto. I riflettori internazionali rimangono dunque puntati sulla diplomazia di Doha per un risultato di più lunga durata, compito non semplice a causa delle molteplici incognite che pesano sul conflitto e sul futuro di Gaza e della sua popolazione.

La tregua ha retto, e ora? | 27 novembre 2023

Chiara Lovotti, ISPI MENA Centre

"Israeliani e palestinesi, americani, europei, paesi arabi: tutti, negli ultimi quattro giorni, abbiamo osservato con il fiato sospeso lo svolgersi del fragile equilibrio pattuito da Israele e Hamas, nel timore che potesse saltare da un momento all'altro. Non è stato così. La tregua ha retto, gli ostaggi sono stati rilasciati, i vari punti dell'accordo rispettati. Eppure, nonostante il rispetto della tregua rappresenti un segnale positivo, e sebbene il silenzio delle bombe abbia portato uno spiraglio di luce dopo 48 giorni di conflitto ininterrotto, rimangono tutte le preoccupazioni e l'amarezza per un mancato cessate il fuoco. Qualche giorno fa, il Financial Times definiva la tregua "un primo passo" verso la pace, riprendendo le parole cariche di speranza di un familiare di un ostaggio israeliano. Ma le condizioni per la pace sono ancora lontane. La tregua non ha certo ammorbidito le posizioni israeliane nei confronti di Hamas e viceversa, né ha cambiato alcunché negli obiettivi di fondo di ambo le parti. Anche nell'eventualità di un'estensione della tregua (caldeggiata da Hamas, che ha evidentemente bisogno di tempo per riorganizzarsi e ricevere rifornimenti), è ragionevole pensare che questa sarebbe breve. Priorità del governo Netanyahu è quella di distruggere Hamas: riportare a casa gli ostaggi rischia di rimanere un obiettivo di second'ordine, nonostante sondaggi e mobilitazioni varie dimostrino che la popolazione israeliana la pensa diversamente. "Eventuali future negoziazioni si terranno sotto attacco", ha detto il ministro della Difesa di Israele. E questo, oggi, sembra lo scenario più probabile". Continua a leggere.