ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

02/23/2024 | Press release | Distributed by Public on 02/23/2024 08:52

Medio Oriente: l’impatto del conflitto

Il conflitto a Gaza getta un'ombra sul quadro economico dei Paesi del Medio Oriente e Nord Africa (MENA). A oltre quattro mesi dal brutale attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre e senza alcuna prospettiva per una soluzione del conflitto in tempi brevi cresce l'incertezza, tanto sul piano geopolitico quanto a livello economico, in un'area tradizionalmente caratterizzata da elevata instabilità e volatilità.

Crescita in rallentamento nell'area MENA

Su questo sfondo, non sorprende che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) nell'ultimo aggiornamento di gennaio dell'outlook economico abbia rivisto al ribasso, sebbene solo dello 0,5%, le proiezioni di crescita della regione MENA, rispetto al World Economic Outlook dello scorso ottobre, attestandola al 2,9% nel 2024. Di fatto, la guerra tra Israele e Hamas è intervenuta in una fase di calo della crescita già avviato, che per i Paesi MENA si attesterebbe al 2,0% nel 2023, in netta decelerazione rispetto al 5,6% del 2022. Oltre a riflettere il rallentamento dell'economia a livello globale, questa riduzione dipende da fattori che hanno avuto un impatto diversificato sui Paesi MENA, quali tre successivi tagli alla produzione di petrolio da parte dell'OPEC+ (di cui l'Arabia Saudita, che conta il 55% dei tagli alla produzione, è membro) da settembre 2022 a giugno 2023, condizioni finanziarie più restrittive e un'inflazione elevata soprattutto nei Paesi importatori di idrocarburi. La riduzione della crescita nella regione è più significativa nelle monarchie esportatrici di petrolio del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) - 0,5% nel 2023, con una ripresa al 2,7% nel 2024 - proprio a causa della minore produzione energetica e della riduzione dei prezzi del petrolio rispetto all'anno precedente quando il costo del barile aveva raggiunto il picco di 120 dollari. Tra i Paesi importatori di idrocarburi, invece, sono stati l'inasprimento delle condizioni finanziarie e l'inflazione elevata a limitare le attività economiche.

L'incertezza legata all'evoluzione dello scontro tra Hamas e Israele e all'apertura di nuovi fronti, oltre al Libano meridionale e al Mar Rosso, ha dunque inevitabili ricadute a livello economico. I primi a risentire dell'impatto negativo sono gli Stati limitrofi all'area del conflitto. Secondo delle stime del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), il costo aggregato della guerra per Egitto, Giordania e Libano potrebbe ammontare a 10,3 miliardi di dollari, pari al 2,3% del PIL di questi tre Paesi. In Giordania e Libano, e in misura minore in Egitto, è il turismo il settore che finora ha risentito maggiormente dell'accresciuta instabilità sul piano geopolitico e che, con il protrarsi del conflitto, potrebbe registrare perdite ancora più significative. Se si considera che per questi tre stati il settore turistico pesa rispettivamente per il 10%, il 15% e il 40% del PIL, sono evidenti i rischi che incidono su contesti economico-finanziari già vulnerabili. Il conflitto in corso ha di fatto frenato la ripresa che si era registrata da inizio 2023. Secondo l'UN World Travel Organisation (UNWTO), infatti, la regione mediorientale nei primi nove mesi dello scorso anno ha avuto una performance migliore rispetto ad altre aree, superando del 20%gli arrivi del periodo pre-Covid. Se la crescita è stata generalizzata, un ruolo di traino è stato giocato dalle monarchie del Golfo che nei loro piani di diversificazione economica, le cosiddette Visions, hanno investito sul turismo tra i settori di punta delle loro strategie di sviluppo. Mentre Dubai si conferma meta privilegiata per i visitatori nella regione, con il 20% in più di arrivi nei primi undici mesi del 2023 rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, anche Arabia Saudita e Qatar puntano a raggiungere rispettivamente il 10% e 12% del PIL con il comparto turistico entro il 2030.

Egitto: il "gigante dai piedi di argilla" sotto pressione

In Egitto, al di là delle incertezze legate al settore turistico, i cui introiti hanno segnato un più 30% nei primi sei mesi dello scorso anno, è l'instabilità nel Mar Rosso a mettere ulteriormente alla prova un'economia già vacillante, con un'inflazione che ha toccato il picco del 34% a novembre e una valuta nazionale fortemente svalutata rispetto al dollaro. Il calo del 40% delle entrate dal transito delle navi rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, registrato a gennaio dall'Autorità del Canale di Suez, acuisce la carenza di valuta estera di cui il Paese ha bisogno per importare grano e altri beni e per rimborsare il suo impressionante debito estero, che ha raggiunto i 164,5 miliardi di dollari nel settembre 2023, di cui 29 miliardi di dollari devono essere rimborsati quest'anno. Per un Paese fortemente dipendente dalle importazioni di grano e cerali, di cui circa l'80% da Russia e Ucraina, l'aumento esponenziale dei prezzi di queste commodities dopo l'invasione russa dell'Ucraina ha avuto un impatto significativo. Per cercare di tamponare le ricadute negative del deterioramento del contesto mediorientale sull'economia egiziana il FMI sta accelerando la conclusione del prestito da 3 miliardi di dollari, deciso a fine 2022 e condizionato all'adozione di riforme da parte del governo del Cairo, incluse misure per favorire la crescita del settore privato. Secondo alcune fonti, il prestito potrebbe essere aumentato a 10 miliardi di dollari, includendo altri donatori, tra cui la Banca Mondiale. Cresce infatti la preoccupazione a livello internazionale per il "gigante dai piedi d'argilla", come spesso viene definito il Paese nordafricano con i suoi 110 milioni di abitanti e un PIL pro capite di poco superiore ai 3.000 dollari.

Giordania in difficoltà e Libano in crisi profonda

A inizio novembre anche la Giordania ha concordato con il FMI un nuovo programma di riforme quadriennale da 1,2 miliardi di dollari per ammortizzare l'impatto negativo del conflitto a Gaza. Oltre alle cancellazioni nel settore turistico, stimate tra il 50% e il 75%, nel regno hashemita la riduzione della crescita, prevista al 2,6% nel 2024, riflette una diminuzione degli investimenti e della domanda di importazioni dalla regione. Rimane invece bloccato un pacchetto da 3 miliardi di dollari del FMI al Libano - dal 2019 alle prese con quella che la Banca Mondiale ha definito una delle peggiori crisi economiche e finanziarie della storia - a causa di perduranti divisioni interne che hanno prodotto una situazione di grave stallo politico e impedito le necessarie riforme strutturali richieste dall'istituzione monetaria internazionale. Sebbene il rischio che un'escalation di violenza dalle aree del sud si diffonda all'intero Paese sembri al momento limitato, la fragile economia libanese ha già accusato i primi colpi dello scontro tra le milizie di Hezbollah e Israele. Non solo il turismo, ma anche altri settori economici chiave - quali commercio e agricoltura - ne stanno risentendo. È proprio nel sud infatti che si concentra oltre il 21% delle coltivazioni del Paese. Anche qui la crescita del PIL subirà una ulteriore contrazione, nonostante il traino del settore turistico nei primi nove mesi dello scorso anno avesse fatto prevedere una crescita positiva per la prima volta dopo quattro anni.

Grave impatto del conflitto sui territori coinvolti

Nell'attuale contesto di guerra, le più duramente colpite sono inevitabilmente le economie di Israele, di Gaza e della Cisgiordania. Se la Striscia è al collasso- meno 6% nelle previsioni di crescita del PIL del FMI - e la situazione umanitaria è sempre più drammatica dopo quattro mesi di azioni israeliane, anche la Cisgiordania ha subito una forte contrazione a causa sia delle restrizioni alla mobilità sia al deterioramento della sicurezza interna. Quanto a Israele, secondo l'Ufficio centrale di statistica israeliano, il PIL del Paese ha subito una contrazione di quasi il 20% nell'ultimo trimestre del 2023, la più grave dalla pandemia quando si era registrato un meno 30% nel secondo trimestre del 2020. Le stime si basano prevalentemente sui dati dei primi due mesi di conflitto in cui Israele si è trovato a evacuare circa 200.000 persone dalle aree limitrofe a Gaza e al confine con il Libano, a richiamare oltre 300.000 riservisti e a sospendere di conseguenza tutta una serie di attività economiche, bloccando tra le altre cose l'accesso sul suo territorio dei lavoratori palestinesi da Gaza e limitando anche quello dalla Cisgiordania. La contrazione è legata principalmente al calo dei consumi privati, dell'export e degli investimenti soprattutto nel settore delle costruzioni. Il costo della guerra è finora stimato dalla Banca d'Israele ad oltre 69 miliardi di dollari (255 miliardi di shekel), mentre l'aumento della spesa pubblica è stato di circa il 90%. Nonostante la ripresa a gennaio di diverse attività, anche in seguito al richiamo dei riservisti, l'agenzia Moody's ha declassato Israele da A1 ad A2 e cambiato l'outlook in negativo. Se la Banca d'Israele si aspetta un'espansione del PIL pari al 2% nel 2024, più cauti sono l'OCSE e l'agenzia di rating S&P, con rispettivamente l'1,5% e lo 0,5%.

Sullo sfondo di un conflitto che non accenna a volgere al termine, va da sé che le conseguenze economiche, sia per Israele e i Territori Palestinesi sia per i Paesi del Medio Oriente, saranno tanto più gravi quanto più a lungo si protrarranno le ostilità e quanti più saranno i nuovi fronti aperti. Se appare chiaro che gli stati mediorientali non hanno intenzione di essere trascinati in una guerra regionale, non altrettanto evidente è la fine della guerra a Gaza. Di fronte allo stallo dei negoziati mediati da Egitto, Qatar e Stati Uniti, nonostante un pressing internazionale sempre più intenso per una tregua umanitaria, e una distanza tra le parti in causa che appare incolmabile, il rischio di una perdurante conflittualità rimane infatti elevato.