11/15/2024 | Press release | Distributed by Public on 11/15/2024 10:45
Taiwan negli ultimi anni sta attraversando una severa crisi energetica, una situazione in verità comune a molti altri Paesi asiatici ed europei ma che, nel caso particolare dell'isola, assume una rilevanza del tutto unica. A essere in difficoltà è soprattutto il comparto della produzione di energia elettrica. Negli ultimi sette anni si sono verificati tre grossi blackout a livello nazionale (accompagnati da altre interruzioni minori), il maggiore dei quali nel 2022 ha lasciato 5 milioni di case senza elettricità e ha inflitto alle principali industrie taiwanesi danni per ben 16 milioni di dollari. Nell'ultimo decennio Taiwan Power Company (Taipower, la società statale dell'energia elettrica) si è ritrovata spesso in affanno: più volte durante questo periodo la capacità di fornitura è stata quasi del tutto saturata e le riserve operative si sono assottigliate oltre i livelli di guardia stabiliti dal governo.
D'altra parte, a fronte di una capacità di fornitura debole, l'uso di elettricità ha continuato a crescere: se nel 2012 il consumo sull'isola era di 241.112 GWh, nel 2021 il valore era più alto del 17,5%. Le proiezioni dell'Agenzia nazionale per l'energia prevedono poi un continuo aumento annuo del 2,5% da qui al 2028, trainato anche dalla crescita del consumo legato all'intelligenza artificiale. Inoltre, mentre gran parte dell'energia elettrica viene prodotta nel sud dell'isola, questa viene consumata principalmente a nord e la trasmissione è ostacolata dalla struttura molto centralizzata della rete elettrica.
Il cuore del problema sta però nel mix energetico, cioè nelle fonti impiegate per la produzione di elettricità. I dati per l'anno scorso rilasciati dall'Agenzia per l'energia riportano che ben l'83,1% di essa è stata generata con fonti fossili (in primis carbone e gas), cui seguiva il 9,5% proveniente da fonti rinnovabili e il 6,3% da reattori nucleari. Elemento ancora più importante, guardando l'evoluzione storica, negli anni Ottanta più della metà di tutta l'elettricità utilizzata da Taiwan era prodotta nei sei reattori costruiti sull'isola negli anni Settanta-Ottanta. Le tre centrali nucleari in cui questi si dividevano erano al centro della politica energetica del governo autoritario del Kuomintang (KMT). Tutto è cambiato con il processo di democratizzazione degli anni Novanta, quando il Partito progressista democratico (PPD) si è affermato come principale partito di opposizione.
Nata dalla lotta contro il governo autoritario cinese e nazionalista del KMT, l'identità del PPD si è formata in contrapposizione accogliendo le istanze dei movimenti localisti e anti-nucleari. Lo sviluppo incurante dei danni ambientali perseguito dal governo autoritario, assieme allo smaltimento delle scorie all'insaputa delle comunità locali, ha quindi impresso nel PPD una profonda ostilità verso i reattori nucleari che ancora oggi nell'immaginario collettivo vengono ricollegati all'epoca della dittatura. Quando il PPD vinse le elezioni per la prima volta nel 2000, una delle prime misure adottate dal governo fu quella di bloccare l'apertura di una quarta centrale nucleare a Lungmen. Da allora, nonostante i lavori fossero quasi terminati, il partito ha continuato a più riprese la battaglia contro la sua apertura e in aggiunta nel 2016 l'ex presidente del PPD Tsai Ing-wen ha proposto un piano per dismettere completamente tutti i reattori entro il 2025. Un obiettivo che ormai sembra a portata di mano: con la disattivazione avvenuta a luglio di uno dei due reattori dell'ultima centrale rimasta, quella di Maanshan, la produzione è ulteriormente calata rispetto al 2023. Secondo Taipower, oggi la percentuale di energia nucleare sul totale è scesa al 2,8% e quando a maggio dell'anno prossimo anche l'ultimo reattore si fermerà l'obiettivo di una "patria senza nucleare" prefissato da Tsai sarà raggiunto.
Questa situazione presenta tre grossi problemi, il primo dei quali riguarda i costi delle forniture. Per compensare la dismissione delle centrali nucleari, Taiwan ha incrementato in modo sostanziale l'importazione e l'utilizzo di gas naturale per produrre energia al punto tale che oggi circa il 40% dell'elettricità proviene proprio da questa fonte. Ciò però si è rivelato un fattore di debolezza con l'invasione russa dell'Ucraina e il rialzo mondiale dei prezzi delle materie prime, rendendo la produzione di elettricità a Taiwan sempre più costosa. È da tempo, infatti, che Taipower genera energia in perdita, una perdita che nella valuta locale è stimata attualmente sugli NT$ 0,4 (pari a circa US$ 0,01) per ogni kilowatt venduto: secondo i resoconti, alla fine dell'anno scorso la società avrebbe accumulato perdite per un valore di NT$ 386,2 miliardi (circa US$ 12,2 miliardi).
Per far fronte a questa situazione, nel solo 2024 il governo ha approvato due aumenti del prezzo dell'elettricità , uno a marzo e l'altro a settembre: il primo, pari a un incremento medio dell'11%, ha colpito in modo lieve il 93% delle famiglie e ha toccato più da vicino i grandi consumatori, mentre il secondo aumento è stato leggermente più elevato (12,5%), ma ha interessato solo il settore industriale. Tuttavia, ciò non sembra essere abbastanza e, anche a fronte di NT$ 100 miliardi (US$ 3,1 miliardi) promessi dal governo, Taipower dovrebbe comunque chiudere l'anno in perdita. La timidezza di Taipei su questo fronte può essere spiegata sia con la difficoltà politica per qualsiasi governo in carica di alzare i costi dell'energia per un elettorato abituato a bollette relativamente leggere rispetto agli altri Paesi sviluppati (NT$ 3,45 per kWh, cioè US$ 0,11), sia con la necessità di mantenere un vantaggio competitivo nei confronti della concorrenza in quelle industrie altamente energivore di cui le aziende taiwanesi sono leader mondiali, prima tra tutti quella dei microchip.
Il secondo problema, meno discusso pubblicamente, riguarda invece la vulnerabilità strategica a cui l'attuale mix energetico espone l'isola. Taiwan, infatti, importa via mare addirittura il 97% delle risorse energetiche di cui ha bisogno, ritrovandosi dunque in una posizione estremamente esposta in caso di blocco navale da parte della Cina. Pechino rivendica la propria sovranità su Taiwan e negli ultimi anni ha intensificato la pressione militare sull'isola, compiendo nel solo 2024 ben due esercitazioni aeree e navali che ne hanno simulato il blocco via mare. Nel caso in cui questo scenario si dovesse realizzare, Taiwan avrebbe a propria disposizione scorte di carbone e gas sufficienti a sostenere il proprio normale fabbisogno di energia per soli 39 e 11 giorni rispettivamente. Benché il governo stia tentando di ampliare le proprie capacità di stoccaggio, la dipendenza pressoché totale dalle importazioni di energia rappresenta una grave vulnerabilità per la sicurezza di Taiwan.
Il terzo e ultimo problema riguarda infine le prospettive piuttosto ristrette offerte dall'attuale mix energetico. Con 11,7 tonnellate di CO2 emesse a persona, Taiwan è uno dei principali inquinatori pro-capite al mondo e in Asia orientale è secondo solo alla Corea del Sud. Questa situazione rischia di compromettere la competitività delle aziende taiwanesi, le quali nel prossimo futuro potrebbero trovarsi in difficoltà nei mercati europei e occidentali per via delle crescenti restrizioni imposte sui prodotti ad alto impatto ambientale. Con questo scenario in mente il governo sta tentando di adottare politiche per la decarbonizzazione volte ad abbassare in modo sostanziale le emissioni entro il 2030, riducendole del 23-25% rispetto alla linea base del 2005. Le energie rinnovabili sono al centro di questo sforzo e nel 2016 l'ex presidente Tsai aveva promesso che queste avrebbero soddisfatto il 20% del fabbisogno nazionale di energia per il 2025 nell'ottica di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050.
L'attuale presidente taiwanese Lai Ching-te, eletto a gennaio e anche lui appartenente al PPD, ha mantenuto l'orizzonte del 2050 e ha proposto un obiettivo ancora più ambizioso per le rinnovabili, che secondo il suo programma elettorale dovrebbero arrivare a contare per il 30% del fabbisogno interno entro il 2030. Si tratta però di un obiettivo molto difficile da realizzare, in primis per la conformazione territoriale montagnosa che restringe le opzioni disponibili principalmente alle pale eoliche offshore (la cui installazione è proceduta più lentamente che secondo i piani) e poi anche per il rischio geopolitico legato alla minaccia cinese che molti investitori internazionali sono restii ad affrontare. Non a caso la quota delle rinnovabili sul mix energetico complessivo è ancora sotto alla soglia del 10% e le emissioni sono calate solo dell'1,8% rispetto alla linea base del 2005.
Di fronte a questo stallo, le forze politiche taiwanesi hanno reiterato le loro posizioni tradizionali sulla questione dell'energia nucleare. Il KMT, oggi all'opposizione ma con la maggioranza in parlamento, sostiene la necessità di un ritorno al nucleare e recentemente ha richiesto di estendere l'operabilità delle centrali oltre i 40 anni stabiliti dalla legge. Dall'altro lato, il PPD di Lai ha condotto una campagna elettorale la cui proposta energetica era incentrata sulla crescita delle rinnovabili e sull'efficientamento della rete elettrica, essenzialmente continuando le linee guida promosse da Tsai.
Tuttavia, nei mesi successivi all'insediamento del governo, la posizione espressa dal PPD si è gradualmente fatta più possibilista, alternando dichiarazioni contrarie al nucleare e aperture. Da un lato, il premier Cho Jung-tai, lo scorso giugno, aveva confermato la determinazione del governo a non cercare un'estensione per l'impianto ancora in funzione, nell'intenzione di dismetterlo definitivamente. Dall'altro, alcuni funzionari di governo provenienti dal mondo imprenditoriale hanno ventilato la possibilità di discostarsi dalle linee politiche disegnate da Tsai: il ministro dell'Economia J.W. Kuo, fondatore di un'azienda di materiali semiconduttori, e il consigliere del comitato presidenziale sul cambiamento climatico Tung Tzu-hsien, fondatore della società di elettronica Pegatron, hanno espresso parere positivo al prolungamento dell'operatività della centrale di Maanshan e anzi hanno pure sostenuto la necessità di riaprire le centrali ormai chiuse.
In questo dibattito interno sembra che l'ago della bilancia propenda sempre di più verso il secondo dei due campi. Negli ultimi mesi, infatti, il presidente Lai non ha voluto escludere la possibilità di mantenere in funzione gli ultimi reattori e sembra guardare alle nuove tecnologie nel campo dell'energia nucleare come alla soluzione per il dilemma energetico e politico con cui deve fare i conti Taiwan. Sebbene una decisione definitiva non sia ancora stata presa e ulteriori consultazioni con le comunità locali siano necessarie, l'attuale governo sembra valutare seriamente la possibilità del nucleare. D'altra parte, la popolazione potrebbe essere anche pronta a un cambiamento in questo senso, come reso evidente dal referendum del 2018 in cui il 59% della popolazione aveva bocciato il piano proposto dal PPD di dismettere le centrali nucleari.
La questione è centrale per un leader mondiale sulla frontiera dell'innovazione tecnologica come TSMC, ma non pone una minaccia alla sua primazia. Benché il suo direttore finanziario abbia detto che negli ultimi anni il costo dell'elettricità per TSMC sia praticamente raddoppiato, in realtà questo aumento dovrebbe incidere per appena l'1% sul margine di profitto lordo della società: un impatto molto contenuto rispetto al margine del 54,4% realizzato l'anno scorso. Inoltre, il livello di prezzo richiesto a TSMC non sarebbe molto diverso da quello vigente in Corea del Sud, dove si trovano i principali concorrenti dell'azienda taiwanese. Il problema, dunque, più che una questione di costi, riguarda in primis la disponibilità di sufficiente energia. Oggi TSMC da sola consuma circa il 6-8% di tutta l'elettricità prodotta sull'isola e, secondo alcune previsioni, potrebbe arrivare a consumarne il 24% nel 2030.
Oltretutto, l'aumento della domanda di energia collegata alla produzione dei microchip più avanzati si accompagna al boom regionale del settore dei data center e dell'intelligenza artificiale, anch'essi settori altamente energivori. Taiwan è parte di questa crescita impetuosa grazie agli investimenti di Nvidia, Google, Microsoft, Apple e Amazon e, secondo i calcoli dell'Agenzia per l'energia, il consumo di elettricità dei loro data center potrebbe espandersi di ben otto volte nel giro di appena quattro anni. Pur partendo da una base bassa di 240 MW consumati l'anno scorso, i data center costituiscono un rompicapo tale per il governo taiwanese che questa estate il ministero dell'Economia ha annunciato l'intenzione di non approvare nuovi grossi progetti nell'area della capitale per favorire una redistribuzione della domanda di elettricità in modo più equo sul territorio.
A fronte di questo aumento trasversale della domanda, il governo e Taipower devono escogitare una strategia per espandere le capacità di fornitura e scongiurare il rischio di saturare eccessivamente la propria rete: una situazione nella quale non solo i blackout sarebbero più probabili, ma anche ipotetiche calamità naturali potrebbero avere effetti molto più dirompenti. TSMC è il fiore all'occhiello dell'industria taiwanese, ma, sebbene goda di una posizione di assoluto favore, il governo non può permettersi che la sua prosperità si trasformi in una zavorra politica generando un disagio energetico per il resto della popolazione.