ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

10/16/2024 | Press release | Distributed by Public on 10/16/2024 04:15

Da Big Oil a Big Energy: transizione a ostacoli

Le International Oil Companies (IOCs), le cosiddette majors del settore Oil & Gas, e le National Oil Companies (NOCs), le società di proprietà statale che, a varie gradazioni, rappresentano gli interessi nazionali nel campo degli idrocarburi, sono certamente tra i soggetti che stanno investendo proficuamente nella transizione energetica.

Che il lettore però si ravveda subito. Ciò non significa né che le fonti a basso impatto carbonico costituiranno il core business nel breve o nel medio periodo di queste compagnie né che l'attenzione delle IOCs e NOCs si stia concentrando esclusivamente su questi temi. Certo invece è che, in un'epoca di crescente instabilità dei mercati, tensioni internazionali esplicite o latenti e politiche energetiche sempre più schizofreniche, anche le società tradizionalmente legate ai settori delle fonti fossili guardano alle tecnologie verdi come un investimento nel futuro di carattere economico e politico.

L'instabilità cronica di petrolio e gas

Perché alcune delle compagnie più solide e conosciute al mondo dovrebbero cambiare il proprio modello di business, abbracciando il processo di transizione energetica? Una domanda più che lecita dato che gli stessi presupposti della decarbonizzazione intendono superare ed eliminare definitivamente i settori su cui si basano i modelli economici delle IOCs e NOCs, rappresentando per queste compagnie una vera forma di minaccia esistenziale.

La risposta innanzitutto andrebbe trovata nel mutamento epocale che i mercati di petrolio e gas naturale hanno riscontrato nell'ultimo decennio. Dalla seconda metà degli anni 2000, quando le politiche di decarbonizzazione hanno iniziato a irrobustirsi, grazie a un supporto sempre più forte soprattutto in Europa, entrambe le risorse hanno vissuto un susseguirsi di cicli di espansione e contrazione che ne hanno, in parte, minato le fondamenta.

Oltre agli shock economici e a quelli pandemici, i fondamentali di mercato hanno vissuto momenti drammatici. Da poche decine di dollari per barile, il prezzo del Brent è più volte schizzato oltre la soglia dei 100 dollari. Il gas naturale, al centro della crisi energetica tuttora in corso, nel 2022 ha fatto toccare record storici che mai si erano verificati nell'intera storia dell'industria, oltre i 350€/MWh sui mercati europei (Figure 1 e 2).

Figura 1

Figura 2

L'aspettativa di entrambe le fonti energetiche è oggi uno dei fattori che certamente più incide sui (dis)equilibri di mercato e strategia delle majors, con il gas certamente meglio posizionato del petrolio nel lungo periodo. L'instabilità geopolitica, come già detto, può portare a improvvisi scossoni, come quanto accaduto recentemente in Libia o in Egitto, con ripercussioni di carattere regionale e globale.

Infine, la competizione tra produttori, sia di petrolio che di gas, ha acuito l'interesse verso segmenti di business che garantissero ritorni economici, talvolta mancanti proprio nel settore core del proprio modello di sviluppo. Si pensi ad esempio all'Arabia Saudita. Al vertice dell'alleanza internazionale OPEC+, in cooperazione con Mosca, Riad mira a spingere in alto il prezzo del greggio e recuperare quote di mercato dai concorrenti. Il Paese è però anche impegnato, tramite i propri colossi statali, tra cui anche Aramco, ad aumentare significativamente gli investimenti non legati alle fonti fossili, prevedendo addirittura oltre il 70% del totale proprio indirizzato verso questi settori nel decennio in corso.

Quali fonti alternative e a quale scopo?

Come visibile nelle Figure 1 e 2, gli ordini di grandezza assunti dalle oscillazioni di prezzo negli ultimi decenni sono tali che, se da un lato rappresentano ghiotti bottini per i Paesi produttori, dall'altra essi hanno invece determinato un interesse fortissimo dei Paesi consumatori per soluzioni alternative.

Alla ricerca di un abbattimento dei costi per rispondere al proprio fabbisogno energetico, si è incentivato così un progresso tecnologico dalla forza dirompente. Evoluzioni che sono riuscite a incidere in maniera strutturale sul legame storico esistente tra idrocarburi e fonti rinnovabili. Se nelle passate fasi negative dei cicli l'abbattimento dei costi ha portato a una competitività tale di petrolio e gas da fermare l'avanzata delle nuove fonti, la ricerca e l'efficientamento delle supply chainsha in particolare reso solare ed eolico a tal punto competitivi da resistere alle precipitose cadute degli indici petroliferi e gassiferi.

Figura 3

In particolare, è proprio nel segmento della generazione elettrica, il perno chiave dell'intero processo della transizione, che le fonti rinnovabili stanno dando battaglia agli idrocarburi. Una tendenza che non è certo sfuggita alle majors, pronte a investire in alcuni settori apparentemente redditizi.

Sulla scia dell'Europa, anche nel Nord America e nell'Asia orientale, Stati Uniti e Cina su tutti, IOCs e NOCs non hanno esitato a farsi portavoce della decarbonizzazione con strategie ritagliate e cesellate finemente. Solcando l'onda alimentata dalle ambizioni di transizione dei policymakers nazionali e dalle pressioni normative interne, le majors offrono una panoramica in sé assai diversificata di approcci alla transizione che non può essere facilmente semplificato.

Allo stesso modo, non si deve dare per scontato che il processo di avvicinamento ai settori low-carbon sia a senso unico. La transizione energetica - un percorso ricco di ostacoli, strapiombi da aggirare e svolte improvvise - ha certamente bisogno di superpotenze che ne incarnino il carattere progressista e innovatore per solidificarne le fondamenta.

Ma la competizione nella manifattura di queste tecnologie verdi e il recupero delle risorse minerarie a esse necessarie sono divenuti una nuova fonte di tensioni. Constatazioni queste non foriere di buoni propositi, vista la frammentazione sempre più evidente del quadro internazionale e di un ordine liberale in piena crisi d'identità .

Di fronte a politiche monetarie restrittive e a un protezionismo incalzante, la selettività degli investimenti delle majors si è così imposta dal 2022 in poi come una nuova regola, scalfita nei piani strategici delle compagnie. La trasformazione da Big Oil a Big Energy delle compagnie occidentali si è improvvisamente infranta. A causare il tonfo i ritorni inferiori alle aspettative di eolico e solare, a cui si aggiunge una riottosità da parte delle majors statunitensi come ExxonMobil e Chevron a incalzare i competitoreuropei su queste tecnologie verdi.

Molte majors hanno così preferito concentrarsi su cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) e idrogeno. Segmenti che, su ambo i lati dell'Atlantico, ma anche in Medio Oriente e in Asia, rappresentano anelli di congiunzione critici per infrastrutture e know-how ai settori tradizionali di riferimento di IOCs e NOCs.

CCS e idrogeno: dove e perché?

Espressione di un mondo che guarda con favore all'obiettivo net-zero, la cattura e stoccaggio del carbonio e l'idrogeno sono altresì eccezionali opportunità di business per le compagnie energetiche internazionali. Tramite il Green Deal e iniziative come REPowerEU, la Commissione europea si è fatta portavoce internazionale di CCS e idrogeno, rappresentando entrambi come strumenti essenziali al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione al 2050.

La cattura del carbonio e la costruzione di un mercato ad hoc, con standard internazionali condivisi, è stato ad esempio al centro della recente visita diplomatica della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a New York per l'Assemblea generale delle Nazioni unite. Non si contano invece le missioni internazionali per siglare partnership tra l'UE e potenziali produttori e consumatori di idrogeno, un vettore energetico che Bruxelles intende importare in grandi quantità già nel prossimo futuro.

Il Clean Industrial Deal che la Commissione dovrebbe lanciare entro i primi cento giorni si propone di accelerare investimenti in energie pulite sia sul lato delle infrastrutture che delle tecnologie. Tra di esse sono incluse anche CCS e idrogeno. Le 35 partnership internazionali siglate dall'UE in quest'ultimo settore sono per von der Leyen la testimonianza di "un Green Deal in azione". Anche il tanto discusso Report "The future of European competitiveness" di Mario Draghi tesse le lodi di CCS e idrogeno, richiamando a una mobilitazione di massa di fondi pubblici e privati in aiuto alla competitività delle aziende europee.

Le majors sono però già molto più avanti rispetto ai policymakers nel determinare il bello e il cattivo tempo di queste tecnologie. E le prospettive non sono del tutto rosee, neppure per i giganti dell'energia dalle possibilità incommensurabilmente più ampie rispetto ad altri soggetti privati. Sia CCS e idrogeno procedono infatti in Europa a velocità che non lasciano ben sperare per le ambizioni net-zero.

Nel Mare del Nord, i governi di Danimarca, Svezia, Francia, Germania e Paesi Bassi hanno sottoscritto la Dichiarazione di Aalborg in aperto supporto al settore della CCS, richiamando a un impegno comune nella filiera. Nonostante una retorica fortemente propositiva nel settore della CCS da parte del settore Oil & Gaseuropeo, le decisioni finali di investimento nel settore continuano a essere inferiori a quanto atteso.

Il gigante statale norvegese Equinor è entrato da poco a far parte del progetto CCS di Kalundborg in Danimarca. Sostenuto da Ørsted, colosso dell'eolico danese, e dallo stesso governo danese attraverso Nordsøfonden, la costruzione di Kalundborg è partita soltanto sul finire del 2023, oltre 10 anni in ritardo rispetto quanto atteso. Circa 430.000 tonnellate all'anno di CO2 saranno eliminate dall'atmosfera, sostenendo l'operatività di due impianti per la generazione elettrica nella stessa Kalundborg e nella capitale Copenaghen.

In sinergia con i propri investimenti domestici, Equinor è quindi divenuta partner di un progetto che prevede l'invio di CO2 in forma liquida verso l'impianto di stoccaggio Northern Lights, nei pressi di Bergen, divenuto operativo sul finire di settembre. La joint venture formata dalle majors Shell, Equinor e TotalEnergies mira a stoccare permanentemente sino a 1,5 milioni di tonnellate annue sul fondale del Mare Norvegese. La realizzazione di Northern Lights fa parte del progetto Longship, la prima infrastruttura al mondo per il trasporto e stoccaggio transfrontaliero di CO2. Un nuovo modello di business che le IOCs vorrebbero testare e applicare in altri contesti internazionali.

Vari governi europei hanno siglato accordi bilaterali per lo sviluppo di corridoi e filiere condivise dell'idrogeno. La Germania in particolare è al centro di una fitta rete di partnership con Paesi come Regno Unito, Norvegia o Cile. Le majors internazionali dell'Oil & Gas sono altresì impegnate nell'avanzare nuovi modelli di business in questo mercato in fase di sviluppo. Oltre ai vari operatori delle reti gas che in Europa costituiscono il cuore pulsante di Hydrogen Europe, organizzazione che raccoglie oltre 30 rappresentanti a livello nazionale, IOCs e NOCs sono attive in tutto il mondo per garantire un futuro prospero al commercio internazionale di idrogeno.

I vantaggi competitivi delle majors per quanto riguarda capacità di investimento e scalabilità dei nuovi prodotti non hanno pari. Eppure, la lentezza con cui i processi decisionali sono presi all'interno di strutture e gerarchie complesse come IOCs e NOCs rende più difficile l'applicazione di innovazioni tecnologiche in cicli brevi, secondo le esigenze che l'industria dell'idrogeno detiene in questa fase storica. Non è dunque un caso che, di fronte a costi incomparabilmente maggiori rispetto a fonti alternative, i progetti di idrogeno fatichino a prendere il via in tutta Europa.

La scelta conservativa di Equinor, RWE e Shell di sospendere i progetti dedicati all'idrogeno blu e verde tra Germania e Norvegia lascia intendere che le majors europee stessero già fiutando da tempo un'aria tutt'altro che positiva per la filiera. Allo stato attuale, infatti, questi annunci si traducono in una vera e propria bocciatura di progetti multimiliardari, dediti alla creazione di un mercato europeo dell'idrogeno che, numeri alla mano, non risponde alle aspettative della Commissione. Cosa diversa accade invece in Cina. Sospinta dalla volontà del governo di creare una leadership globale nel settore dell'idrogeno verde, la NOC dell'Oil & Gas SINOPEC sta portando avanti il progetto di Kuqa nella regione dello Xinjiang. Nonostante processi produttivi non del tutto efficienti e problemi di sicurezza, oltre alle ovvie difficoltà nello sviluppare il progetto per l'assenza di modelli alternativi da seguire, le compagnie cinesi non demordono e anzi, rilanciano con nuovi impianti. Il nuovo progetto di Siziwang Banner, localizzato nella Mongolia interna e dal costo di 2,6 miliardi di dollari, mira a quadruplicare la capacità di Kuqa. A dimostrazione della natura fortemente centralizzata della strategia di transizione cinese e della crescente competizione tra modelli di business su grande scala nel settore dell'idrogeno a livello globale, l'impianto è realizzato dalla compagnia statale Jizhong Energy Group, tradizionalmente specializzata nell'industria del carbone.

Nuove gerarchie tra Stato e Mercato nel passaggio da Big Oil a Big Energy

La transizione energetica, una realtà che i governi del Nord globalizzato hanno abbracciato e che sempre più viene considerata come un'opportunità anche dal Sud globale, impone nuovi ritmi e orizzonti alle Big Oil. Che esse siano IOCs o NOCs poco cambia. Il know-how tradizionale del settore degli idrocarburi si dimostra oggi essenziale nei settori low-carbon come CCS e idrogeno.

Approcciare nuovi modelli di business è richiesto dagli investitori come strategia di hedging, ma ciò è in grado di pagare dividendi politici significativi. La politicizzazione di queste relazioni gerarchiche e verticali tra Stato e Mercato dovrà essere oggetto di attenta analisi in futuro. A mano a mano che la decarbonizzazione procederà, con fasi di fortune alterne, sarà proprio l'intervento politico a rafforzare, o smorzare, la coerenza tra strategie e investimenti nei settori a bassa emissione di carbonio.

Già tesi per via di una polarizzazione crescente del dibattito tra coloro che intendono accelerare la transizione e coloro che vorrebbero invece modularla più lentamente, i rapporti politici si faranno ulteriormente più tesi. In Occidente, l'intervento delle autorità pubbliche a sostegno di questi settori sarà sempre più rilevante nel determinarne il futuro. Il ritorno di dirigismo e statalismo, come mai si è assistito nel corso degli ultimi 30 anni, potrebbe cambiare profondamente l'intera industria energetica sia nel Nord America che in Europa.

L'effetto feedback è destinato così ad approfondire ulteriormente la concettualizzazione della transizione come una sfida per una leadership industriale e tecnologica tra grandi potenze. La determinazione della Cina nell'ottenere un primato mondiale in pressoché tutti i settori verdi fa da apripista a quella che è, nei fatti, una corsa globale. Altri Paesi come India, Brasile, Sud Africa e Indonesia potranno così scegliere quale modello meglio si confà alla verticalità dei rapporti tra Stato e Big Energy.

Assi diplomatici, energetici e geopolitici si plasmeranno proprio sulla scelta di quale modello meglio coniuga interessi nazionali, ritorni economici e ambizioni di transizione.