ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

10/11/2024 | Press release | Distributed by Public on 10/11/2024 06:51

Tagli Fed: virata per gli emergenti

Il 18 settembre la Federal Reserve (Fed) ha annunciato il primo taglio dei tassi d'interesse dal 2020. Dopo oltre due anni dall'inizio della politica monetaria restrittiva, la Fed ha ridotto di 50 punti base il tasso sui fondi federali (quello applicato dalle banche commerciali per prestarsi fondi a vicenda). È tempo di aiutare il mercato del lavoro e incentivare gli investimenti nel Paese, dicono da Washington, ma anche di dare respiro al resto del mondo.

L'aggressiva campagna dei rialzi intrapresa dalla Fed è riuscita a fermare la galoppata dell'inflazione nel Paese, ma l'impatto della stretta è andato ben oltre la giurisdizione di Washington: essendo il dollaro americano la moneta di riferimento per il commercio e la finanza globali, le decisioni della banca centrale statunitense hanno innescato reazioni a catena sui mercati di tutto il mondo.

Effetto domino

A partire dal marzo del 2022, l'innalzamento dei tassi d'interesse statunitensi aveva reso i titoli americani particolarmente redditizi e quindi attraenti agli occhi degli investitori internazionali. Questo aveva attirato capitali verso gli Stati Uniti, provocando un aumento della domanda di dollari e un sostanziale apprezzamento del biglietto verde: a ottobre 2023 il tasso di cambio effettivo nominale del dollaro (USD NEER), una media fra i tassi bilaterali con i principali partner commerciali statunitensi, si era apprezzato del 12% rispetto all'anno precedente (Figura 1).

Figura 1 - Fed aggressiva e il dollaro si apprezza

Fonte: FRED

Le conseguenze di ciò sono rilevanti e molteplici. Innanzitutto,essendo circa il 40% del commercio mondiale di beni fatturato in valuta americana, il suo apprezzamento rende le importazioni particolarmente costose, deprimendo gli scambi internazionali.

Non solo. I capitali che si spostano verso gli USA lasciano scoperto il resto del mondo. Quando aumentano gli interessi dei titoli obbligazionari americani, Treasuries in testa, si riduce il differenziale con i rendimenti dei titoli legati alle economie emergenti e in via di sviluppo. E se il premio è minore, quest'ultimo non giustifica più il maggior rischio connesso agli investimenti in questi Paesi, portando a un deflusso di capitali e un deprezzamento delle valute locali (Figura 2). Per esempio, nel corso dell'ultimo anno le valute dei mercati emergenti sono diminuite del 4% rispetto al dollaro.

Figura 2 - Variazione dei tassi di cambio delle valute emergenti rispetto al dollaro da gennaio 2022

Fonte: elaborazioni dell'autrice su dati Xe.com

Ma valute locali svalutate rendono anche le importazioni e i debiti denominati in dollari più onerosi, aumentando le pressioni sulle bilance dei pagamenti nazionali. Secondo le stime dell'UNCTAD, fra il 2021 e il 2023 i pagamenti netti di interessi sul debito pubblico pagati dai Paesi in via di sviluppo sono aumentati del 26% e nel 2023 un terzo di queste economie ha dovuto destinare più del 10% delle entrate pubbliche al pagamento degli interessi. Al contempo, il peso eccessivo del debito pubblico e la mancanza di investitori hanno ridotto le emissioni nette di Eurobond del70% nel biennio 2022-2023 rispetto a quello precedente (gli Eurobond sono strumenti di debito internazionale emessi da un Paese in una valuta diversa dalla propria, tipicamente in dollari o euro).

Per ora le stime di crescita del PIL dei Paesi emergenti e in via di sviluppo rimangono positive: secondo l'aggiornamento del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale (FMI) di luglio, si prevede un +4,3% sia nel 2024 che nel 2025. Tuttavia, in futuro la riduzione sofferta degli investimenti domestici ed esteri potrebbe portare a una diminuzione dei fondi a disposizione dei progetti di sviluppo, dell'occupazione e in ultima istanza anche delle prospettive di crescita economica nel medio-lungo termine.

Cambio di rotta?

Insomma, le politiche monetarie portate avanti dalla Fed hanno avuto non poche ripercussioni sull'economia e sulla finanza globali. Ciò ha messo in difficoltà le economie più fragili ed esposte sui mercati internazionali, ma ha anche portato diversi Paesi a ridurre l'uso del dollaro americano come valuta di scambio e di riserva. Con la fine della politica monetaria restrittiva annunciata lo scorso settembre dall'istituto guidato da Jerome Powell viene quindi da chiedersi se basterà a invertire la rotta e dare respiro all'economia globale.

In teoria, una riduzione dei tassi d'interesse porta a una diminuzione dei costi di finanziamento, incoraggiando investimenti e consumi. Oltre a rilanciare l'economia americana, una politica monetaria espansiva della Fed potrebbe anche portare nuovi impulsi ai mercati finanziari dei Paesi emergenti, con gli investitori in cerca di rendimenti elevati, anche in mercati rischiosi. Questo ridurrebbe le tensioni sui tassi di cambio, incentivando una ripresa del commercio globale e riducendo gli oneri sulla bilancia dei pagamenti nazionali.

Nella pratica, però, è ancora troppo presto per aspettarsi una vera e propria inversione di marcia. La politica monetaria della Fed non si trova in una fase espansiva, ma piuttosto in una fase di alleggerimento di quella restrittiva. Nonostante il taglio di settembre sia stato più sostanzioso rispetto alle aspettative, i tassi d'interesse statunitensi rimangono ai livelli più alti degli ultimi due decenni e non è certo quante altre riduzioni verranno attuate nel breve periodo.

Vento in poppa per gli emergenti?

Di conseguenza, la riduzione del costo del denaro negli USA non sarà sufficiente a stimolare tempestivamente un massiccio rientro di capitali verso le economie più rischiose. C'è però un fattore che i Paesi emergenti potrebbero sfruttare a loro vantaggio: il nuovo spazio di manovra nelle politiche monetarie nazionali. Nell'ultimo anno molte banche centrali avevano mantenuto i tassi d'interesse elevati per limitare la volatilità delle valute locali (più che per una reale necessità di contrastare l'inflazione). Un eccessivo distanziamento dalla politica della Fed sarebbe stato rischioso, in quanto avrebbe portato a un maggiore differenziale con i tassi americani, disincentivando ulteriormente gli investimenti internazionali nel proprio Paese.

Per converso, la prospettiva di una normalizzazione da parte della Fed permette alle banche centrali delle economie emergenti di "riappropriarsi" della propria leva monetaria e di agire (seppur con moderazione) per dare un nuovo slancio alla crescita del PIL (Figura 3). Fra agosto e settembre Indonesia e Filippinehanno tagliato di 25 punti base. In Africa la banca centrale del Ruanda ha tagliato di 50 punti, mentre quelle di Kenya, Uganda e Sudafrica di 25 punti. In America Latina hanno ridotto quelle di Messico, Colombia e Perùsempre di 25 punti. Mentre altre avevano da tempo scommesso su un alleggerimento della stretta monetaria americana, optando per un taglio già da giugno.

Figura 3 - Differenza nei tassi di interesse di riferimento delle banche centrali emergenti dal 1 giugno al 4 ottobre 2024

Fonte: elaborazioni dell'autrice su dati Trading Economics

La fine delle politiche restrittive della Fed, unite alle aggressive misure di stimolo portate avanti dalla seconda economia globale, ovvero la Cina, segnano un panorama economico e finanziario globale in mutamento. Certo, rimangono almeno due questioni in sospeso, ossia le elezioni e il soft landing dell'economia negli USA, che potrebbero causare nuovi shock nel resto del mondo: i nuovi dazi proposti da Trump porterebbero a nuove guerre commerciali e ondate inflazionistiche, mentre un'eventuale recessione dell'economia a stelle e strisce trascinerebbe con sé il resto del mondo. Occorrerà dunque procedere con cautela ed evitare manovre brusche fintanto che non sarà disponibile un quadro macroeconomico più chiaro, ma nel complesso le prospettive di crescita sembrano più positive che in passato.