ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

11/07/2024 | Press release | Distributed by Public on 11/07/2024 08:25

Il futuro incerto del multilateralismo nell’era Trump

Senza il coinvolgimento delle grandi potenze il multilateralismo non sopravvive. A maggior ragione, senza la maggiore - gli Stati Uniti. Sarebbe come un Gran Premio senza Ferrari. La comunità internazionale è ora pertanto costretta, piaccia o meno, ad adattarsi ad na nuova versione: il multilateralismo alla Trump. Che ha come punto cardinale l'interesse nazionale di ciascun Paese nella convinzione che un ordine mondiale basato sulla somma degli interessi individuali dei partecipanti sia una base molto più solida dell'effimera ricerca di un interesse comune a tutti. L'ex e futuro Presidente l'ha già detto: alla prima Assemblea Generale delle Nazioni Unite in cui prese la parola, nel 2017. Nulla fa pensare che abbia cambiato idea.

La rielezione di Donald Trump - con doppia maggioranza, forse tripla se i repubblicani prendono anche la Camera - taglia la testa al toro delle incertezze americane. Gli americani sanno cosa li aspetta: l'hanno scelto. Ma pone interrogativi per il resto del mondo. Che lo subisce, molti di buon grado. Fra questi, l'effetto Trump su un multilateralismo, già azzoppato dalle guerre e crisi che il sistema internazionale è incapace di risolvere, non è forse il più pressante a confronto di altri a scadenza immediata come le sorti dell'Ucraina o del commercio internazionale, in caso dei minacciati dazi a 360 gradi. Ma condizionerà il funzionamento dell'Onu, terrà in ostaggio la Nato e si rifletterà indirettamente ma pesantemente sull'Unione Europea.

Non è vero che Donald Trump rigetti il multilateralismo. Il rieletto Presidente degli Stati Uniti sa benissimo che per primeggiare ("America first") bisogna fare i conti con tutti gli altri. Quello che rigetta è il modello tradizionale di funzionamento del multilateralismoassembleare che, essenzialmente, consiste nel far sedere intorno a un tavolo tutti gli "azionisti" per negoziare soluzioni ai problemi internazionali, talvolta regionali, arrivando alla conclusione per consenso o, in rari casi, per voto ponderato ("maggioranza qualificata" nell'Unione Europea, diritto di veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza). Spesso dopo riunioni estenuanti, ma anche quelle fanno parte del metodo. Dietro questo sistema c'è però una convinzione: che per i membri della comunità internazionale (Onu) o di club più ristretti (UE, NATO, OSCE, OCSE ecc.) esista un punto di atterraggio sul quale tutti possano accordarsi. Basta trovarlo. Ovviamente è in genere il minimo comune denominatore, ma talvolta si raggiungono risultati più ambiziosi. Ma tutto questo non sta bene a Donald Trump.

Trump ha una visione darwiniana delle relazioni internazionali. L'equilibrio si raggiunge nella competizione. Ogni Paese deve, legittimamente, perseguire i propri interessi fino al punto in cui abbia la forza, le risorse e le capacità per farlo. Arrivato al punto quegli interessi collidono con quelli di altri Paesi più forti, è costretto a fermarsi per non essere sopraffatto - sempre nel proprio interesse. Questo approccio ha due evidenti corollari a tutto vantaggio degli Stati Uniti, almeno pro tempore: avvantaggia il più forte che può imporre i propri interessi su quelli del più' debole - senza ricorrere alla guerra, secondo Trump, perché al più debole non conviene farla; frantuma la continentalità multilaterale in un arcipelago di relazioni bilaterali.

Il multilateralismo di Donald Trump e' una somma di bilateralismi. Saranno tempi duri per le Nazioni Unite e per l'Alleanza Atlantica. Ed è una sfida esistenziale per l'Ue il cui presupposto fondante è esattamente l'opposto: la messa in comune degli interessi nazionali degli Stati Membri. Quanti avranno la tentazione di seguire l'esempio americano?